Luigi Bernardi
CI VEDIAMO IN PIAZZA
LE GINOCCHIA DI ANGELA
Se ne stava al centro della piazza, dritta e immobile che pareva la sagoma di una pubblicità. I calzetti gialli erano la prima cosa che si faceva notare, poi le lunghe trecce rosse che davano a pensare che ci dovessero essere anche delle lentiggini, a guardare da vicino. Per il resto, indossava un abito bianco di cotone, ai piedi calzava dei sandaletti blu.
Diceva che aspettava il suo vecchio lupo di mare. Diceva che il suo vecchio lupo di mare sapeva raccontarle storie che guarivano le sbucciature che aveva alle ginocchia. Diceva che il suo vecchio lupo di mare era lunico capace di guarirla.
Poi diceva di chiamarsi Angela. Lo diceva a tutti, anche a chi non glielo chiedeva. Mi chiamo Angela, diceva, e aspetto il mio vecchio lupo di mare. Quando parlava, arricciava il naso e le labbra, tirava i muscoli giusti, quasi si fosse allenata a farlo, magari davanti a uno specchio. Era vanitosa, Angela, vanitosa come poche. Figuriamoci se le lentiggini le avesse avute per davvero.
Era una settimana che Angela stava dritta e immobile al centro della piazza. Era diventata amica di tutti e tutti si chiedevano per quanto tempo sarebbe rimasta ancora lì, prima di stufarsi di aspettare il suo vecchio lupo di mare.
Angela non si era stancata, e aveva avuto ragione a non spazientirsi perché un giorno il suo vecchio lupo di mare era arrivato sul serio, un tipo alto e robusto, con una bella barba bianca e la pipa in bocca. Laveva presa per mano e laveva portata sulla gradinata davanti al sagrato della chiesa. Insieme si erano seduti, sulla fila più in alto.
Dice che sono rimasti delle ore a parlare, che allinizio lo faceva solo lui, ma che poi aveva cominciato anche lei.
Dice che entrambi accompagnavano le parole con larghi gesti delle mani.
Dice che un bel giorno si sono tirati su, hanno fatto in giro della piazza e sono scomparsi in una viuzza laterale.
Dice che nessuno sa dove siano finiti.
Dice che in certi giorni, e in particolari condizioni di luce, la loro ombra sia ancora visibile, proiettata sui gradini, come se non si fossero mai mossi da lì.
Dice che la cosa più strana è che le ginocchia, Angela, non le aveva affatto sbucciate.
IL TEMPO DELLE CROCI
Il secondo giorno di croci in piazza ce nerano cinque. Cinque croci con un largo piedistallo per tenerle su, belle dritte a puntare il cielo. Chi le ha messe ha imparato la lezione della prima volta, quando ce nera una sola e con un piedistallo stretto e lungo che sono bastati gli spasimi della donna inchiodata a farla cascare per terra. Cinque croci e cinque crocifissi, tre uomini, una donna e un bambino. E neanche un segno che spiegasse perché.
Tonino il falegname dice che quelle croci sono fatte in serie, per cui cè da aspettarsi che ce ne siano parecchie altre. Poi dice che di chiodi del genere non se ne trovano più, che hanno smesso di fabbricarli da quando le case si costruiscono con il cemento armato. Alla fine si gratta la testa, spalanca gli occhi e dice che è proprio una stranezza.
Il terzo giorno di croci in piazza ce nerano soltanto due, però messe in modo tale da far pensare che avrebbero dovuto essere una di più e che solo un intoppo avesse impedito lelevazione della terza. I crocifissi erano un frate e una suora, lui calzava ancora i sandali, lei lavevano lasciata con i piedi nudi. Cera chi sosteneva che laltro doveva essere il cardinale. Uno biascicava che invece era meglio se fosse stato il sindaco, però non spiegava perché.
Yuri lo zingaro dice che loro non centrano, che loro non hanno mai provato gusto a mettere in croce nessuno. Poi dice che i suoi figli avevano solo voluto fare uno scherzo, e che li tengano pure in galera se vogliono, basta che non sia per molto. Alla fine sputa per terra, si pulisce la bocca e chiede se gli possono restituire almeno i due rami, che lui li aveva raccolti per fare legna.
Il quarto giorno di croci in piazza ce nerano ancora cinque, questa volta erano disposte in cerchio e al centro sembrava mancasse qualcosa. Erano tutti e cinque giovani, avranno avuto ventanni ed erano vestiti diversi. Sotto quella dovera inchiodata la ragazza con i capelli gialli attendeva un cane, ogni tanto alzava la testa e guaiva. Si era lasciato portar via solo dopo che avevano smontato le croci. Intanto cerano già diciotto famiglie che lo volevano adottare.
Celso il poliziotto dice che non cè verso, che la città è grande e le piazze troppo numerose, che non ce la fanno a controllarle tutte. Poi dice che le vittime non si sa chi siano, che non avevano documenti e che nessuno le ha ancora riconosciute. Alla fine si soffia il naso e aggiunge che questa è la cosa più strana, perché le fotografie di quelle facce le hanno viste dappertutto.
Il quinto giorno di croci in piazza non ce nera nessuna. Erano tutti soddisfatti, soprattutto gli allibratori che avevano incassato le giocate e non dovevano pagare nessuna vincita, perché la gente aveva scommesso solo su un aumento di morti. Qualcuno che di nascosto teneva la lista dei cadaveri aveva messo via il quadernetto poi aveva fatto finta di essere contento anche lui. Sotto sotto però si capiva che gli giravano le balle.
La signora Armida dice che è stato come i suoi reumatismi, che le vengono di quegli attacchi che durano proprio cinque giorni e poi vanno via e la lasciano in pace per un po. Poi dice che bisogna farci labitudine. Alla fine prende il rosario e comincia a sgranare delle preghiere, aggiunge solo che volenti o nolenti siamo pur sempre nelle mani del signore.
Il sesto giorno di croci in piazza ce ne sono novantadue, così tante che si fa fatica a contarle.
IL COCOMERO
Una mattina al centro della piazza cera un cocomero.
Non che qualcuno lavesse messo apposta, o se lo fosse dimenticato. No, era proprio cresciuto lì, si vedeva il gambo che sbucava da sotto la pavimentazione. Era bello rotondo e verde, con la pancia biancastra. Lhanno guardato in tanti, poi è arrivato uno di quei disgraziati che dormono sotto il portico. Lha preso con entrambi le mani, lha tirato un po su, saranno stati una trentina di centimetri, poi lha lasciato andare di colpo. Il cocomero si è spaccato quasi a metà, dentro era rosso con dei bei semi grossi e neri. Il poveraccio lha aperto per bene con le mani, poi si è seduto per terra, ha spaccato una metà in due battendosela contro il ginocchio, ha ficcato la faccia dentro e ha cominciato a mangiare. Quando ha finito, e sparpagliati vicino erano rimasti solo dei pezzi guscio rosicchiati, ha fatto segno che era buono.
Dice che dopo aveva la barba che pareva unta.
Dice che le mosche avevano cominciato a ronzargli intorno.
Dice che se il barista non gli faceva lavare la faccia non si sa mica bene come sarebbe andata a finire.