Mario Coloretti
MIA SORELLA
Alto, snello, elegante, sicuro di sé. È un bel ragazzo, non ho difficoltà a riconoscerlo, anche se questa ammissione porta all'incandescenza la massa di piombo fuso che occupa il mio stomaco e la spinge fino in gola generando una scia bruciante al centro del petto. A parziale consolazione noto che è più bello da fermo che in movimento. Ha unandatura incoerente, fatta di continue variazioni di ritmo senza ragione, come quella dei bambini. È da giorni che lo studio, sono giunto alla conclusione che questo suo modo di camminare non è dovuto all'affollamento dell'ora di punta sotto i portici, è la meccanica stessa dei suoi muscoli che non ha armonia, è futile, arrogante e pretenziosa come i vestiti che indossa.
La tentazione di lasciare perdere è come sempre molto forte, ma c'è lo scoglio duro della responsabilità verso mia sorella che infrange la marea montante dell'antipatia e vince la riluttanza a continuare.
Il ragazzo si ferma nel solito bar, ripete la coreografia di sorrisi e pacche sulle spalle con amici che interpreta al termine di ogni giornata lavorativa, alterna come gli altri aperitivo e cellulare con la disinvoltura di un lungo apprendistato. Si assomigliano tutti, in questo bar cromato e lussuoso, dove più che conversazioni si offrono gli uni con gli altri atteggiamenti, vestiti alla moda, tendenze.
Passata la mezz'ora di rituale esposizione e contemplazione, il ragazzo s'incammina verso casa dopo una salva finale di saluti stentorei. Lo seguo.
La sera è umida e fredda, una nebbia farinosa galleggia a mezz'aria velando le prospettive delle vie del centro che percorriamo. Poca gente in giro a quest'ora, a occupare il mio campo visivo c'è solo il supplizio di quell'andatura illogica e spossante da seguire. Per fortuna il tragitto è breve. Aspetto che si arresti di fronte al portone di casa con le chiavi in mano per avvicinarmi.
"Sono il fratello di Silvia" dico. "Devo parlarti."
"No, pazzesco, faccio fatica a crederlo". Il ragazzo dibatte le mani in aria a comporre la rappresentazione del proprio stupore. "Siamo nel duemila, e ci sono ancora cose del genere, qui a Bologna? Ma parli sul serio?"
"Mi sento in dovere di proteggere mia sorella."
"Ma Silvia è già maggiorenne da parecchi anni, e ti assicuro che è bene aggiornata su come va il mondo, specie per quanto riguarda gli uomini." Una risata secca, nervosa. "Mi sa che non ha proprio bisogno della tua protezione."
Siamo seduti uno di fronte all'altro nella casa che immaginavo avesse, un unico grande ambiente illuminato da faretti dove la divisione tra i vari settori è affidata all'assetto degli elementi che compongono l'arredamento. Solo la camera da letto e il bagno hanno porte.
È la prima volta dopo diversi giorni che ho la possibilità di osservarlo da vicino, e lo faccio con un'impertinenza che va oltre il limite della correttezza. Capelli dal taglio accurato, abiti firmati, scarpe inglesi lucenti, abbronzatura da lampada che fa assumere alla sua faccia regolare una levigatezza bruna e patinata, da manichino. Tuttavia forse alle donne piace.
"Oh, insomma" sbotta innervosito dal mio silenzio e dalla mia analisi invadente "cosa vuoi, in definitiva?"
"Conoscere le tue intenzioni."
"Le mie intenzioni?" Ancora quella risata secca, sgradevole. "Presto detto. Quella di divertirmi e di fare divertire Silvia. Qualcosa in contrario?"
"No, affatto. Ma il divertimento dove vi porterà?"
"Non capisco."
"Vorrei sapere se prevedi un futuro per questa relazione."
"Che tipo di futuro, scusa."
"Qualcosa di stabile. Al limite il matrimonio."
I suoi occhi si spingono in fuori come a divorare la faccia ma non comunicano alcuna intensità, rimangono vacui e inerti nonostante si sforzi per renderli espressivi. "Ma dico, cos'è questa storia? Mi vieni a parlare di matrimonio che conosco Silvia da una settimana appena?"
"Dieci giorni."
Questa precisazione lo disorienta. Mi scruta con un filo di inquietudine. "Ma che razza di personaggio sei, tu?"
"Sono una persona" sottolineo con la voce la parola "che ha a cuore la sorella. Siamo rimasti orfani, e ho giurato sul letto di morte dei miei genitori che mi sarei preso cura di Silvia in ogni circostanza. Sono disposto a tutto per mantenere la promessa fatta."
"E' una minaccia?"
"Se è in gioco la felicità di Silvia, sì."
"E credi che questo tuo intrometterti nella sua vita privata la renda felice?"
"Penso che sia il male minore indurla a interrompere fin da subito una relazione che non ha futuro invece che permetterle di portarla avanti e accumulare così una sofferenza molto più grande quando finirà. Silvia è molto sensibile."
Un pensiero volgare gli attraversa il cervello, ma l'espressione della mia faccia, dura, inaccessibile, lo blocca prima che possa vestirlo di parole.
"Senti" dice in tono conciliante "mi trovo bene con tua sorella, ci intendiamo su molte cose. È meravigliosa. Però non puoi chiedermi un impegno oltre il limite del ragionevole. Cioè, non ho niente contro il matrimonio, ma viviamo alla giornata e vediamo cosa succede. Vuoi?"
Perlustro l'appartamento con gli occhi inspirando lentamente. La persuasione morbida ha fallito, debbo spingermi oltre. Rischiare.
"No, non mi va bene. Non ho niente contro di te, ma non mi fido a lasciar andare in giro mia sorella specie in questo periodo, col maniaco dello scalpo a piede libero."
"Ma va', che il maniaco dello scalpo uccide solo uomini" fa in tempo a dire prima di bloccarsi di colpo a bocca socchiusa. "Cosa c'entra il maniaco dello scalpo, scusa?"
"C'entra. In una città come questa tutto c'entra. Anche le cose come il maniaco dello scalpo."
Una specie di concentrazione gli scende sulla faccia, come se stesse riepilogando tutte le notizie apparse sui giornali e alla televisione riguardo agli omicidi che da un anno accadono in città. La sua mente si arrampica faticosamente verso la verità, lo intuisco dalla fissità dello sguardo e dalle rughe sulla fronte, ma l'ascesa è troppo ardua per la sua capacità di ragionamento. Non riesce a raggiungere la cima, preferisce lasciarsi scivolare in basso, verso una consuetudine più abbordabile e meno problematica che gli permette di risolvere il momento difficile sfoderando lo stesso sorriso a tutti denti con cui si rivolge ai suoi amici del bar.
"È inutile" dice con ritrovata sicurezza "non puoi imporre niente né a me né a lei." Si alza di scatto dalla poltrona. "Adesso, scusa ma devo prepararmi. Mi aspettano, vado fuori a cena. Si, con Silvia. Fattene una ragione."
Si, purtroppo una ragione me la sono già fatta. Funesta ma inevitabile. Lo saluto ed esco da casa sua.
Mi sento in colpa mentre riattraverso il centro isolato in mezzo a una nebbia sempre più consistente e gialla. Non sono stato né energico né persuasivo. Nonostante i buoni propositi, ho la sgradevole sensazione di essermi lasciato intralciare dall'antipatia che mi suscitava. Condannandolo a morte. Qualche rara macchina mi passa accanto, alcune biciclette senza luci procedono a tentoni lungo i vicoli bui accompagnate dal fruscio dei copertoni sul selciato umido. Nessuno a piedi. Passo dopo passo il senso di colpa si trasforma in collera contro mia sorella, una collera lucida, aguzza e dilaniante che accende le potenzialità nocive del mio cervello, quelle parti oscure che squarciano notti e nebbie con brutalità incontrollabile.
E dire che tutto di me, anche l'aspetto fisico, è fatto per l'astrattezza e la delicatezza, per virtù lente e meditative capaci solo di sfiorare la realtà, non certo ghermirla e manipolarla. A causa di Silvia e del vincolo a cui mi lega il sangue, invece, sono costretto a cimentarmi con forze incomprensibili, in un territorio sconosciuto che non mi appartiene. Inoltre il cerchio si sta chiudendo, inesorabilmente. La polizia tra breve si accorgerà che le sei vittime del mostro sono tutte legate dal fatto di avere avuto una relazione con lei. È solo questione di tempo. Ormai siamo agli sgoccioli. Mi arresto e respiro la nebbia lentamente, a occhi chiusi. Grado dopo grado torna a installarsi nella mia mente un certo filo di autocontrollo, ancora vago e incerto, ma comunque accettabile. E insieme a questo, un senso di sconfortante desolazione.
In ogni caso, qualunque cosa succeda, l'avrà voluta lei.
Alla fine, poi, è tutto come le altre volte.
Gli stivaloni di gomma non. mi isolano dall'asfalto, ho i piedi ghiacciati, inutile batterli a terra per spremerne un po' di calore. Sono piazzato tra cassonetti della spazzatura, in una zona d'ombra dove nessuno può scorgermi, affondato in uno spessore di tristezza così denso e tenace da rendermi difficoltosi i movimenti. Aspetto.
Il cellulare trilla, attivo la comunicazione. La voce di Silvia mi giunge liquida, distorta, come da un fondale marino. Non l'ascolto, so già quello che ha da dirmi. Stacco il contatto. Le scale del palazzo sono buie, salgo fino alla porta dell'appartamento del ragazzo. È socchiusa.
Dentro mi aspetta Silvia, con lo scalpo in una mano e il coltello nell'altra. È tutta. imbrattata di sangue.
Piange, sconvolta, con quell'aria d'incredulità che ha sempre dopo uno dei suoi omicidi. Tenta di dare un senso al suo comportamento infilando parole smozzicate e incomprensibili tra le lacrime. La zittisco con uno schiaffo che contiene il mio insuccesso e la mia incapacità a proteggerla da se stessa.
Il cadavere scempiato e mutilato giace sulla stessa poltrona da cui mi parlava poche ore prima. Mi faccio forza e inizio il mio lavoro: se non da se stessa, devo almeno difenderla dagli altri. Mentre sono impegnato a cancellare ogni traccia della presenza di Silvia in quell'appartamento e a lasciare bene evidenti le impronte degli stivali di gomma di due taglie superiori, che finora sono riusciti fortunatamente a disorientare la Polizia, non posso fare a meno di dirle:
- Cristo, Silvia, quando ti deciderai a prendere marito?