Franco Foschi

APOCALISSE DI CARTA

 

 

Il silenzio era spesso, tanto era silenzio. Si potevano sentire i tarli che se la sgranocchiavano felici, tra i vecchi tavoli, le vecchie travi, le vecchie pareti, i vecchi stemmi della biblioteca.

Io molto concentrato faticavo su ‘La crisi del demonio nella cultura orientale’ di W.H. Dabeljiuic. Lem di fronte a me non staccava gli occhi dal suo adorato Postman III°, credo leggesse ‘Morte e vita nell’Ade’, o forse ‘Il prossimo paradiso’. Si erano seduti di fianco a noi due diligentissimi studenti di storia medievale, col tempo eravamo diventati amici. Appena arrivati un lieve cenno di saluto, poi eccoli affogati negli studi rispettivi. Uno preparava un esame sfogliando con discrezione ‘L’Evo dei marinai’ dell’ammiraglio Gain Ferox, l’altro lavorava alla sua monumentale tesi sulle amanti di Maria la Frenetica.

Tutto attorno l’usuale fauna della biblioteca si cimentava nel laborioso mantenimento del silenzio. L’abitudine a questo luogo fa sì che tutti finiscano per conoscere tutti, più o meno. Gli studenti di medicina erano i più distratti.

Lem aveva stretto amicizia con un incartapecorito professore di fisica: ad un certo punto della sua vita costui aveva dato l’impressione di una perfetta macchina che perda un congegno fondamentale da un orecchio. Non si può smontare un motore, e quando lo rimonti ti rimane un pezzo: così l’uomo, senza una rotella, aveva abbandonato tutto, e studiava con ostinazione alcuni insopportabili poeti persiani del quattrocento.

Poi c’erano i letterati veri, che si dividevano in due categorie perfettamente distinte: quelli vestiti in maniera impeccabile e quelli vestiti in maniera disdicevole. I primi studiavano solo su testi come ‘Teoria e tragedia del romanzo mai scritto’ di Sir Window McKenzie, i secondi su altri testi come ‘Il pane e il salame nella letteratura delle pianure’ di Abramo Melli e Iames Santarcangeli. Poi vi era qualche altro individuo curioso, come chi consultava testi di balistica o di agronomia sottomarina, e infine i bibliotecari. Questi avevano elaborato un loro personalissimo gergo gestuale, che non necessitava di alcun suono, e portavano invariabilmente ai piedi sofficissime babbucce di panno, silenziose come gatte guardinghe. Le porte, ai battenti, indossavano morbidi feltrini. I due grossi aeratori, alle due estremità della sala, producevano l’aria calda più silenziosa della storia.

Penso di essere stato il primo ad intuire che qualcosa d’insolito stava per accadere. Prima ancora che tutti avvertissero il trambusto, fuori dalla porta a vetri, avevo osservato degli strani, ripetuti riflessi che filtravano dalla vetrata. Come l’armatura di un cavaliere battuta dal sole. Così non fu una sorpresa sentire strepiti e pochi attimi dopo vedere entrare, con un calcio fracassante, il professore di fisica. Si guardava attorno con quella sua aria da matto, ma questo non sarebbe stato grave. Il fatto è che aveva per le mani un Kalashnikov. Tanto per farci capire che non scherzava diede una bella sventagliata di colpi verso l’alto, sbrecciando travi e sterminando tarli, il tutto seguito dal crollo di stemmi che stavano dove stavano forse da qualche secolo.

Tutti urlavano, tutti si buttavano sotto i tavoli. Giudiziosamente alcune ragazze svennero. L’uomo nel frattempo, con una forza insospettabile per un anziano, quella forza che sola viene dalla follia, aveva trascinato due enormi tavoli contro la porta d’ingresso. Come se avesse occhi dietro, o un senso sesto, appena percepiva che qualcuno si stava muovendo sollevava in quella direzione il mitra, scoraggiando ogni tentativo.

Io ero sicuramente impaurito, ma altrettanto sicuramente freddo. Consiglio a tutti la lettura del Dabeljiuic, penso mi venisse da lì la coscienza che il diavolo in fondo non è imbattibile. Ma col diavolo sotto forma di svampito ex professore di fisica la battaglia è dura. Aveva preso un’andatura barcollante, non sembrava così insicuro sul compito che aveva da fare. Si avvicinò alla Giorgina, una vera istituzione del mondo bibliotecario, e con una breve raffica, eseguita con una lievissima carezza al grilletto del suo mitra, la freddò.

Caspita! Chissà dove aveva imparato a sparare così bene…

Non è precisamente quello che pensavo, in quel momento. In quel momento inorridii, cercai di calmare Lem che tremava come una foglia e, forse l’unico lì dentro, cercai di pensare a che si poteva fare per venirne fuori, e magari senza un graffio. Beh, pensai anche agli altri: il professore sembrava ubriaco e minaccioso. Ubriaco non lo era senz’altro, se non della ubriachezza naturale dei suoi neuroni, ma determinato lo era sicuro. Si avvicinò al Bubbi, il più fighetto della truppa, e gli alzò l’occhio cieco del mitra verso la faccia.

"No!" urlò Bubbi.

"Sì!" urlò il professore, e sparò. L’ex ragazzo azzimato divenne anche un ex essere umano scivolando a terra con eleganza, se possibile, e adagiandosi languido sul pavimento. Stravolto dal suo stesso sangue. Era morto, sicuro, e dovevo fare qualcosa. Non c’era tempo da perdere.

"Lem, piantala di tremare… Tu che lo conosci: come si chiama quel matto?"

Ma Lem tremava, appunto, come un marinaio appena ripescato dal Baltico.

"Lem! Cazzo, è importante!"

Mi guardò come se fossi anch’io qualcosa di alieno, anzi, qualcuno di alieno.

"Che… Che vuoi fare?"

"Fermarlo, possibilmente. Allora, il suo nome?"

"So solo il cognome: Aldrovandi."

Osservai il vecchio balordo. Stava guardandosi attorno. I bibliotecari, annusando che l’aria pesante era soprattutto per loro, si erano rintanati come piattole nei capelli di un magrebino, ovunque sembrasse possibile avere una qualche probabilità di salvare la pelle. Inspirai a fondo, avevo imparato non so dove che l’ossigeno è euforizzante, e urlai.

"Professor Aldrovandi!"

Si fermò, si guardò attorno.

"Professor Aldrovandi!" ripetei con più foga, così, tanto per fingere di non avere paura.

"Che cazzo vuoi? Fatti vedere" rispose. Tra le gambe del mio tavolo notai che aveva sollevato impercettibilmente la canna del mitra, e che le sue dita avevano avuto una breve fascicolazione. Mica tanto rassicurante, la cosa. Ma sapevo che ero in ballo e dovevo ballare, come avrebbe detto Nureyev.

"Professore, sono Lem, si ricorda di me?"

"Sì" disse, chiaro che non si ricordava. Mi ero fatto vedere, e devo dire che somiglio a Lem come una forcina per capelli somiglia a un diamante, e lui è la forcina per capelli.

"Che cazzo vuoi, Lem. Sbrigati, che ho da fare."

Vada per l’improvvisazione, quando l’urgenza lo richiede. Ma… E adesso?

"Perché fa questo, professore?"

"Fare cosa? Eliminare questi parassiti? Lo sai che in dieci anni non mi hanno portato un libro giusto? Non meritano di vivere."

Cercai di ricordare le mostruosità che di solito leggeva, e che io sbirciavo di tanto in tanto.

"Ma come, professore: proprio ieri l’ho vista che studiava sulla teosofia di Al-Rajid-Sandjani, non è forse un libro che aveva richiesto e ricevuto?"

Lo turbai per un attimo. Ma quale logica puoi aspettarti da uno che ha imbracciato il Kalashnikov con l’idea di sterminare una categoria di persone, se non tutte le persone?

"E allora? — riprese — Vada per tutte le volte che mi hanno detto ‘non ce l’ho, non ce l’ho’… Quelle troie imbalsamate e quei villanelli rifatti."

Si girò di nuovo e sparò a casaccio verso il fondo del bancone. Un urletto seguito da un lamento tedioso dicevano che i colpi non erano andati a vuoto.

"Ma professore, su quale tra i meravigliosi libri che legge è scritto che questa è la giustizia?"

Si girò di nuovo a guardarmi. Quasi quasi strizzavo gli occhi, nell’attesa dell’urto delle pallottole. Che però non venne.

"E tu che ne sai, Lem, dei miei poeti teologi persiani?"

"Che ne so? Io so solo che Kamal-al-Kamani, nel suo splendido ‘Il sorriso ai piedi della montagna’, dice che il ruggito del leone non si addice all’uomo."

Abbassò il mitra, gran bel gesto. Meditava, rifletteva. Lem mi tirava un pantalone verso il basso.

"Ma che fai — bisbigliava — sei pazzo?"

"Non più di lui. Taci, che mi sembra confuso."

L’uomo ondeggiava, il mitra a penzoloni lungo il fianco. Magari uno, tipo uno come me, avrebbe potuto saltargli addosso e disarmarlo. In fondo era un vecchio. Ma una cosa è sentirsi un eroe, una cosa è farlo sul serio.

"Vedi, ragazzo — aveva ricominciato a parlare come una segreteria telefonica che si sblocca — già nel trecento avanti Cristo un uomo della potenza spirituale di Omar Muhammad Ghazali aveva detto che il sacrificio dei cattivi poteva essere la condizione della gloria di Allah. Non che io creda in queste scemenze, ragazzo, ma le trovo comunque suggestive. Sterminare gli stronzi lì dietro al bancone può essere glorioso anche senza che a guadagnarci sia Allah."

Lingua mia, ti prego, tu che non taci mai, sforna qualche follia comprensibile a questo energumeno. A questo poveretto. Dei della dialettica, vi prego, aiutatemi.

"C’è un versetto, professore, in uno dei Corani apocrifi, che dice ‘esultate, truppe dello spirito, che le vostre mani non hanno bisogno di agire, per la gloria di Dio’. Mi creda, professor Aldrovandi, anch’io detesto la misericordia fine a se stessa, o quella pantomima del perdono. Bisogna essere spietati: ‘lasciamo a questa umanità corrotta il dolore di vivere, non la grande liberazione del morire’, sentenzia Jamal Kantara nel terzo tomo delle sue ‘Meditazioni sull’Ecclesiaste’. D’accordo, siamo già nel sesto secolo dopo Cristo, ma fino a cavallo dell’anno mille, converrà con me, la cultura persiana si può definire ancora pura, non dobbiamo dubitare della pulsione spirituale che…"

Gesù, pensavo, Gesù se ci sei batti un colpo, fai che la mia parola sgorghi ipnotica come adesso, fai che le orecchie di quest’uomo non captino nulla di strano, non capiscano il bluff come uno scafato giocatore di poker…

"Lem, ma tu non stavi sempre lì a studiare il Postman III?" disse improvvisamente lo sbiellato. Fragole surgelate mi grattarono di paura la spina dorsale. Rimasi immobile, in attesa che il mio cervello pieno di sorprese mi gratificasse di una nuova sorpresa.

"Lem, che cazzo ne sai tu dei persiani?" riprese, il mitra si stava sollevando, paura, lasciami in pace.

"Professore Aldrovandi, lei mi offende. Io sono uno studioso. Uno studioso vero non arretra di fronte a nulla."

Poi, nell’ansia asfittica, un’altra idea di genio. Ricordai che lo vedevo spesso mangiare da solo alla mitica taverna del Lurido, dove si spende pochissimo mangiando davvero male, ma molto.

"Ma come, professore, non si ricorda più le nostre lunghe cene dal Lurido, quando discettavamo sulla verga di Aronne, sulla santità di Abramo per gli arabi, e sulla possibile infezione dei Fenici sulla cultura del basso mediterraneo occidentale?"

Sentivo che stavo esaurendo le risorse. Non so che avrei potuto più inventare, per prolungare la conversazione.

"Sì, sì, ricordo… - i suoi occhi perduti dicevano il contrario — però, Lem, adesso mi ricordo, tu eri quasi calvo, e adesso come mai…"

Lo sparo arrivò più inatteso di un ictus. La ghirlanda rossa che gli si aprì sulla fronte era quasi un affronto: cadendo, grumosa materia cerebrale uscì proprio di lì. Quel cervello era stato un ottimo viatico per la vita, prima di trasformarsi in un’arma impropria. Pover’uomo. Chissà se ora sei salvo.

Ora, raccontando, mi do un po’ di arie. Ma l’infinita tristezza che mi prese, appena la paura se ne andò e l’ambiente si riprese dallo shock a favore dell’isteria, non mi ha abbandonato per lungo tempo. Ho pianto i caduti ad opera della follia, ma anche chi della follia non ha alcuna responsabilità.

Nel frattempo, ho anche cambiato biblioteca.