SCARPETTE ROSSE

di Franco Foschi

 

 

Se c’è una cosa che detesto in particolare, sui treni, è la questione della porta dei cessi. Non ho mai capito perché si debba aprire verso l’interno: l’ambiente è piccolo, anzi piccolissimo, a malapena ci si può sedere sulla tazza e commettere le proprie nefandezze, qualsiasi esse siano. Così ora, dopo aver chiesto al Generale se potevo assentarmi un attimo, la detesto più che mai, questa porta. E’ aperta, ma c’è qualcosa dietro che la blocca. Dico ‘Scusi?’ ma nessuno risponde. E io che ho un tale bisogno di pisciare, una di quelle pisciate che scheggiano la ceramica… Provo a forzare la porta e, nella piccola feritoia che riesco a produrre, vedo. Vedo una gamba di donna, a terra, che calza una scarpa rossa col tacco a spillo. La calza nera che ricopre la gamba è strappata in più punti. Non vedo altro, ma mi basta.

Il controllore l’ho incontrato due carrozze oltre la mia.

"Venga, c’è una donna che si è sentita male, in un gabinetto…"

Lui mostra una certa padronanza di sé. "Signora…" dice piano, ma come me sa già che non avrà risposta. ‘Sarà una tossica’ sibila forzando la porta a più non posso, finché riesce a aprirla. E quello che vediamo è desolante. La ragazza ha la gola squarciata, la gamba che non vedevamo dalla feritoia è disarticolata in maniera curiosa, come un burattino abbandonato. Però l’immagine è davvero orribile, e rimaniamo bloccati, instupiditi. Avrei quasi voglia di vomitare, ma evidentemente fare il militare di carriera mi ha in qualche modo formato, infatti non vomito.

"Gesù…" dice l’uomo, ma mi sembra una evocazione fuori posto. E mi fa scuotere dal mio blocco stuporoso. Vedo che la ragazza ha le mutande strappate, e sanguina anche tra le gambe, oltre che dalla voragine che la attraversa da orecchio a orecchio.

"Dobbiamo chiamare la polizia" dico, sai che genio. Ma al controllore sembra un’ottima idea, e comunque anche lui si scuote.

"Senta, le chiedo un favore, resti qui un attimo, non faccia avvicinare nessuno, vado in cima al treno a telefonare, non so, dico al guidatore che rallenti, che chiami la stazione, dovremmo esserci tra circa venti minuti…"

Farfuglia qualcos’altro di confuso, e se ne va.

Spero solo che faccia presto, è abbastanza inquietante starsene qui con un cadavere ridotto così. Il Generale magari si starà arrabbiando. L’unica consolazione nell’essere l’attendente di un Generale è che la carriera è già ai minimi termini, quindi più in basso di così non puoi andare. Potrà sbraitare finché vuole, dopo, il motivo del mio ritardo mi sembra più che valido.

Per fortuna nei minuti seguenti non compare più nessuno. Quando il controllore torna sta sudando come una scrofa gravida, anche se non è che sia ‘sto gran caldo. Si asciuga la fronte con un fazzoletto, e si sente in dovere di ragguagliarmi sulla evoluzione degli avvenimenti.

"Abbiamo chiamato la stazione di Bologna, ci saremo tra dieci minuti. Il treno resterà fermo, chiuso, nessuno potrà scendere, questo è quanto ha detto la polizia."

All’arrivo in stazione sul marciapiede stazionano decine di agenti della polizia ferroviaria. I primi a raggiungerci sono un ragazzotto da palestra con i capelli debordanti gel e una poliziotta. Troppo giovane. Impallidisce percettibilmente alla vista del corpo martoriato e, in qualche modo, volgare. Non vomita solo perché sa che il suo compagno macho, dopo, la prenderebbe in giro per secoli.

Poi arriva la polizia vera, sotto forma di quella entità dai contorni sfumati che è un commissario. Lui non si scompone più di tanto, non toglie nemmeno le mani di tasca.

"E’ lei che l’ha trovata?" mi chiede sapendo benissimo la risposta. Ma rispondo, mai fare incazzare un poliziotto all’una del mattino.

Mi chiede qualche altra scemenza inutile, non sa ancora come regolarsi. Siamo in una tipica situazione da film, una di quelle che di solito non si verificano mai, nella vita vera. Così davvero, poveretto, non sa come comportarsi. Alla fine, dopo lunghe attese e chiacchiere continue al cellulare e al walkie-talkie, veniamo portati, tutti i passeggeri, pochi, una cinquantina circa, nella sala d’attesa di prima classe. Rinchiusi. Poliziotti presidiano l’ingresso, non fanno uscire nessuno. Entrare sì, e poco dopo arrivano un paio di figure istituzionali delle quali ignoro i compiti.

Il Generale appena mi ha visto, scortato da un agentucolo della Polfer, mi ha squadrato come a dire ‘ecco, questo idiota s’è messo nei guai, capitano tutti a me…’. Poi però, quando gli ho raccontato quel che è successo, ha assunto un contegno impeccabile, e ai poliziotti non faceva che dire ‘sono qui, pronto a collaborare’. Ai poliziotti, che in realtà non sembravano considerarlo più di tanto.

Alle cinque, stremati, finalmente il commissario ha detto che ormai non c’era più niente da fare, lì. Avevano interrogato tutti, in un angolo della sala, uno alla volta, prendendo i documenti, sedando i più irrequieti, annotando infinite cose di chissà quale importanza. Io sono stato interrogato a lungo, ho cercato di ricordare quanti più particolari potevo. Forzando anche la mia mente a vedere di nuovo quello che magari aveva visto solo distrattamente. Per dire, mi sono ricordato che c’era una unica scarpa rossa, nel cesso, quando il controllore e io l’abbiamo aperto. Il poliziotto mi ha guardato perplesso. Anzi, per dirla tutta: mi ha guardato con una franca espressione di ‘embè?’ che, non lo nego, mi ha un poco irritato. Ma come, uno si sforza di essere collaborativo, e voi lo trattate come un deficiente? E quell’avvocato, allora, che non faceva che minacciare, ‘dovete lasciarmi andare, non sapete chi sono io, posso telefonare a questo e a quello…’. Per onestà però devo dire che il poliziotto se ne è fregato bellamente delle sue rimostranze, continuando a interrogarlo finché lo ha ritenuto opportuno. Oppure direi anche più del necessario, se fossi malizioso…

Poi il commissario è salito su di una sedia, per parlare una sola volta e per tutti: raccomandandoci di restare a disposizione ai numeri di telefono che avevamo indicato, e di comunicare con lui (numero di telefono diretto allegato) in caso ci fosse venuto in mente qualche particolare che ritenessimo importante.

Ecco, è stata quella frase che mi ha acceso una lampadina in testa. Ho subito sentito, come una specie di prurito fastidioso ma difficile da localizzare, che sì, poteva esserci qualche particolare che mi era sfuggito. Una minuscola variazione, un piccolo movimento accidentale, uno scarto quasi inavvertibile dalla regola, una sciocchezza irrilevante e importantissima…

Così quando è arrivata la macchina a prenderci, il Generale e me, per portarci in caserma, avevo un certo qual malumore. Non avevo voglia di parlare, pensavo ai cazzi miei, mentre il Generale invece era querulo, stronzo come mai, e raccontava all’autista dei particolari da deficiente. Ma come si fa, pensavo, a essere così idioti…

Ma pensavo anche ad altro. Ad altro ad altro ad altro. Un virus di malumore mi scavava dentro, un amaro alla bocca, allo stomaco, alla bocca dello stomaco, come potevo risolverlo?

"Poi, Pocaterra, lei aveva l’obbligo di riferire ogni suo movimento sul treno, tutto quello che aveva fatto fino a quel momento…"

‘Ma taci, idiota’ avrei voluto dire. Anche tra i denti, mi sarebbe bastato. Ma no. Ecco che la sua frase, la frase dell’idiota coi galloni, assunse un colore diverso, una diversa penetranza nella mia attenzione. Ecco, luminoso ed esplosivo, il particolare che sapevo di sapere senza ricordarlo: l’idiota era andato in bagno una ventina di minuti prima di me. Cercai di rivedere come tutto si era svolto. Il generale che si alza, dice elegantemente ‘vado al cesso’, prende la sua borsa e… Già, che se ne faceva della sua borsa, mi risulta che eravamo su quel treno non certo per il trasporto di documenti importanti, poteva lasciarla lì, sì, che se ne faceva… Poi lo rivedevo nella sala d’attesa, non l’aveva mollata un attimo, quella stupida borsa di pelle nera, che cazzo…

Lo guardai con rinnovato interesse. Scendemmo, all’arrivo in caserma, io simulando una stanchezza terribile, lui stranamente adrenalinico, si vedeva benissimo che era su di giri. Ma potevo anche essere io, ad esagerare nell’interpretazione. Poi entrò nel suo appartamento, e addio. Ci eravamo augurati qualche ora di sonno, l’ordine era di non chiamarlo per almeno sei ore.

Mi infilai nel suo appartamento dopo circa un’ora. Avevo una chiave che lui stesso mi aveva fornito. Me l’aveva affidata con evidente disappunto, anche se ero il suo attendente si vedeva benissimo che gli stavo sulle palle. Ma, se capita qualcosa, non si sa mai, potrei avere bisogno del tuo aiuto…

Camminai piano lungo il breve corridoio d’ingresso. Il silenzio era una coperta corta, non dovevo fare assolutamente alcun rumore, il vecchio bastardo era più sveglio di quanto si potesse pensare. Arrivai al salotto e la borsa di pelle nera se ne stava sbattuta sul divano, aperta. Mi avvicinai, la luce era buona, il faro che illumina il portone d’ingresso della caserma è spaventosamente intenso, e in quel momento illuminava a giorno anche il salotto del Generale degli Stronzi. Ma dentro alla borsa non c’era nulla.

Mi sedetti qualche secondo sulla poltrona a fianco. Deluso. Anche se non sapevo perché. Non sapevo che cosa stavo cercando, come potevo sperare di trovare qualcosa? Mi sfregai la mano sugli occhi, la delusione aveva azzerato l’eccitazione, il sonno poteva vincermi da un momento all’altro, dopo una notte così. Che colpo sarebbe stato addormentarsi lì, essere beccato poco dopo, e obbligato ad inventare qualcosa per giustificare la mia presenza…

Mi alzai, e il movimento mi diede una rinnovata ira: non potevo accettare di convivere con il mio sospetto. Ma grosse alternative non c’erano. Cercai un poco qua e là, senza metodo, e senza trovare niente di interessante. Non c’era scampo: ‘devo andare in camera da letto. Se qualcosa, non so cosa, ci deve essere, sarà là’ pensavo, pensiero davvero piuttosto vago.

Finché, sempre più irrisolto, tirai un gran sospiro e tentai la porta della camera da letto. Non cigolò nemmeno un poco, ringraziai silenziosamente il dio dei cardini. Il vecchio bavoso russava, una faccetta felice, il sonno di un bambino birichino che sogna marachelle creative e divertenti. Di fianco alla sua faccia, sul cuscino, c’era una scarpa rossa col tacco a spillo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI DI RECENSIONI

 

 

PORCI CON LE ALI ANCHILOSATE

Rocco e Antonia, Porci con le ali, Oscar Mondadori

"… Non ho nostalgia di Porci con le ali, che per le 140 pagine che questa volta sono riuscito a leggere mi è sembrato ciò che mi sembrò nel 1976: un libro brutto, scritto alla come-viene-viene, ideologicamente schematico, sfacciatamente falso, fatto passare per ciò che non era, ossia un ritratto autentico, dal vero, dal vivo, di chi stava attorno a me, di me. Di io. Un ritratto ammaestrante, ma non avevo voglia di farmi ammaestrare".

(Giulio Mozzi, Alias)

CHI L’HA SCRITTO?

Oscar Wilde, Opere, Meridiani Mondadori

"… Nonostante le 107 edizioni disponibili, Oscar Wilde resta ancora un autore poco conosciuto in Italia, benché frequentemente citato. Viene in mente una battuta di Francis Scott Fitzgerald: ‘Hai mai letto Oscar Wilde?’ ‘No. Chi l’ha scritto?’ ".

(Giuliano Vigini, Corriere della Sera)

L’INCONTINENTE

Antonio Moresco, Canti del caos, Feltrinelli editore

"… Antonio Moresco è un ricattatore confesso: scrive un libro illeggibile e sfida il lettore ad affermarlo (se lo fa è pronta l’accusa di incompetenza). Illeggibile non come lo si diceva del romanzo di Joyce (chiaramente inafferrabile e irriducibile al senso comune) ma come scelta programmata ed esibita. Questo è un romanzo di 400 pagine (che si ripropongono sempre uguali) ma vallo a rimproverare di incontinenza: l’autore ti dirà che il valore di una crescita sta nel punto in cui supera il limite e trabocca; per più della metà della sua lunghezza propone le stesse scene di sesso sregolato e tendenzialmente osceno (con accoppiamenti improbabili anche tra uomini e animali) ma vallo a rimproverare di ripetitività: l’autore ti dirà che la vita è un’apoteosi di ritorni e qui sta la sua insopportabilità o, a rovescio, il suo riscatto; con impegno dichiarato e continuo carica toni e situazioni oltre l’udibile ma vallo a rimproverare di oltranza: l’autore ti dirà che la deriva è la costante che marca il tempo in cui viviamo:

(Angelo Guglielmi, Tuttolibri)

LA BUGIA COME IDEOLOGIA

Joseph Ellis, Founding Brothers: The revolutionary Generation, Knopf Ed, New York

"… Todo es mentira canta Manu Chao. Ma non sono canzonette, se a mentire è il Professor Joseph Ellis, storico e docente insigne, vincitore dell’ultimo premio Pulitzer con questo libro. Autore di famose biografie, Ellis ha falsificato la più importante: la propria. Ha detto di aver combattuto in Vietnam (non c’è neanche stato), poi di avere militato per la pace (falso pure questo). E, indignando ancor di più il suo pubblico, Ellis si è vantato di aver segnato il punto decisivo nella finale di football, quando era al college. Non era neppure in squadra".

(Giovanna Zucconi, Corriere della Sera)

RECENSIONI DELL’ALTRO MONDO

Lea Vergine, Ininterrotti transiti, Rizzoli editore

"… tale è la passione di Lea Vergine per l’arte da travolgere qualunque barriera, sia disciplinare che spazio-temporale. Il suo libro è una raccolta di scritti ‘che restituisce un nitido affresco dell’universo-arte di fine Novecento’. Per dissipare ogni nostro residuo scetticismo, il risvolto di copertina ci sbatte sul grugno due laudationes di grande peso: ‘La diagnosi di lea Vergine è penetrante e precisa’ (Giulio Carlo Argan, L’Espresso); ‘Un’indagine fatta insieme di nevrosi e di filologia, inseguimento di indizi, riconoscimenti di orme (Giorgio Manganelli, L’Europeo). Argan? Manganelli? Ma non erano entrambi passati a miglior vita parecchi anni fa? Evidentemente, transita oggi, transita domani, la brava Lea è transitata anche nei Campi Elisi, interpellando le anime dei beati. In fin dei conti, nell’era del post modern, vanno bene pure le recensioni post mortem".

(Il Sole 24 Ore, rubrica ‘Le Vespe’)

LA BEATIFICAZIONE DI ANDREOTTI

Nicola Tranfaglia, La sentenza Andreotti, Garzanti editore

"… Metà cauto e metà perentorio il commento di Tranfaglia distingue costantemente fra la responsabilità giudiziaria, che si nutre di prove precise, dirette e certe, e la responsabilità storico-politica. Dalle reazioni alla sentenza del tribunale di Palermo nei confronti di Andreotti Giulio, accusato di collusione con la mafia, abbiamo appreso quanto sottile è la linea che per molti politici separa la assoluzione dalla beatificazione".

(Gianfranco Pasquino, La Rivista dei Libri)

RECENSIONE DI RECENSIONE DI RECENSIONE

F. D’Agostini, Logica del nichilismo, Laterza editore

"… parlare piuttosto male di un libro e malissimo del tema di cui tratta, parlando benissimo dell’autore, è una mossa retorica sempre suggestiva, anche se molto nota: si tratta del genere ‘Bruto è un uomo d’onore!’ che Marco Antonio adotta nel Giulio Cesare di Shakespeare… Questa la strategia adottata da Maurizio Ferraris per recensire il libro. Devo comunque ringraziarlo, perché si può fare di peggio, e l’agilità di scrittura non gli manca per farlo, e se ha deciso di contenersi così sarà per via di un principio di cortesia (o di carità) che spesso risparmia in altri contesti".

(F. D’Agostini, L’Indice)

PAGINETTE LEGGERE LEGGERE

Andrea Camilleri, Racconti quotidiani, Libreria dell’Orso editore

"Questo è un titoletto sbrigativo per giustificare la raccolta di articoli di Camilleri apparsa sui tre quotidiani per i quali scrive: sono riflessioni (veloci) su fatti di cronaca, osservazioni (superficiali) su fatti di costume, nonché rivelazioni (modeste) sulla propria scrittura, sul suo radicamento siciliano e sulle letture o sui segreti del commissario Montalbano, di cui sapevamo già tutto quel che basta. Il tutto per poco più di sessanta paginette leggere leggere appesantite da una introduzione utile solo a dare un minimo spessore (fisico) a un non libro".

(Giorgio De Rienzo, Corriere della Sera)

TORNA A ZAPPARE

Francesco Alberoni, La Speranza, Rizzoli editore

"…una virtù, egli scrive, senza la quale il domani ci apparirebbe ‘come il luogo dell’inquietudine, del mistero e del pericolo’. Tra i più fulgidi esempi di speranza esaudita, Alberoni cita il caso della moglie: ‘I suoi genitori facevano i contadini nel meridione profondo, e lei ha dovuto lavorare come bracciante, esattamente come fanno oggi gli extracomunitari’. Con sprezzo del pericolo Rosa Giannetta in Alberoni è diventata scrittrice, e ci ha regalato capolavori quali Io voglio ed Esploratori del tempo. Come direbbe una delle sue eroine di riferimento, la Rossella O’Hara di Via col vento, ‘Dio m’è testimone che non soffrirò la fame mai più’. Buon per lei, e nessuno le augura di ritornare nei campi. Ma la nostra (tenue) speranza di lettori è che, così come fece a suo tempo con la zappa, la signora ceda prima o poi anche la penna a qualche extracomunitario di talento".

(Il Sole 24 Ore, rubrica ‘Le vespe’)

CAZ, CUL, MER, VAFFAN…

Linda Jaivin, Meglio morto, Guanda editore

"Vorrebbe forse essere, questo, il romanzo dell’arte di oggi misconosciuta da un potere oscurantista. Ma la storia di un ventitreenne che abita a Sydney e si ritiene il miglior pittore della sua generazione, senza tuttavia riuscire ad avere successo (e allora gli amici gli suggeriscono di morire giovane perché solo così potrà avere fortuna) è praticamente un guazzabuglio. Naturalmente ci sono sesso, droga, alcol in abbondanza. Poi c’è anche un grande e inutile spreco di parole che cominciano per ca, cu, mer, vaffan…"

(Giulia Borgese, Io donna)

LA SPERANZA (DI UN LIBRO MIGLIORE) E’ L’ULTIMA A MORIRE

Paola Capriolo, Una di loro, Bompiani editore

"…la verde sopracoperta che riproduce un di pinto di Segantini, ‘La vanità’, invita alla lettura. Se poi scorriamo la quarta di copertina, che elenca i numerosi premi e riconoscimenti ottenuti dalla scrittrice, aumentano i motivi per cimentarsi con questa nuova prova… Peccato però che il libro finisca, già dopo poche pagine, con lo smontare le aspettative del lettore… Ciò che lascia più perplessi è lo stile, che del resto mai come in questo caso è consustanziale al contenuto. La Capriolo è scrittrice di buona cultura letteraria. La letterarietà che domina il suo periodare è però di tipo tutto esteriore, al limite del manierismo e della leziosità. La lingua è piatta, convenzionale, da bella pagina… Per non parlare di cliché del tipo ‘poiché la speranza è l’ultima a morire’ (testuale a pagina 19)… Una di loro è uno di quei romanzi che negli anni 60 si sarebbe definito ‘un romanzo medio’: pretese insoddisfatte di letterarietà, ricerca del sublime a buon mercato, insomma un prodotto atto a compiacere le velleità intellettuali ed estetiche di un pubblico colto, ma dai gusti pur sempre piccolo-borghesi".

(Roberto Carnero, L’Unità)