FRANCO FOSCHI
NON SEMPRE LA TUA SALVEZZA TI SALVA
La prima volta che vidi la mia casa avevo ventanni appena. Mio marito uno solo più di me, eppure avevamo già due figli.
La casa ci era stata segnalata da un amico di famiglia. Ci abitava una vecchietta di ottantuno anni, piccola, secca, rugosa come una mela dimenticata in un angolo. Era abbastanza illogico che, tutta sola, vivesse in quella casa enorme. Era davvero unimponente villa vecchio stile, di tre piani, tutti immensi. A noi piacque subito, così come il piccolo giardino che sul retro cresceva in ripida salita per una quindicina di metri, finendo in un curioso angolo acuto.
La vecchietta ci aveva accolto, contro ogni previsione, con estrema benevolenza. Il fatto che fossimo lì con i nostri due piccoli bambini aveva prodotto decisamente una buona impressione, su di lei. Partendo dalle due stanze in cui viveva come reclusa, ingombre di cianfrusaglie, centrini ricamati a mano, statuette di porcellana, bicchieri, carillon, vecchi ritratti in cornici dargento ingiallite o in radica di noce, ci aveva guidato con un certo affanno lungo le stanze e le scale che percorrevano i tre piani della casa. Tutto era leggermente claustrofobico, con lodore stantio dei luoghi chiusi da troppo tempo. Ma bastava aprire le finestre e il sole entrava esuberante, così come la frizzante aria della prima collina in cui ci trovavamo.
Il primo impatto con la casa era stato decisamente positivo. Rientrando nel nostro piccolo appartamento del centro città già elaborammo progetti grandiosi, dove avremmo messo le librerie, come distribuire le camere ai bambini, e come utilizzare al meglio i grandi spazi che rimanevano. Avevamo una solida allegria di base, provocata dalla sensazione netta che non vi sarebbero stati problemi, e che la casa fosse in pratica già nostra. Forse eravamo solo troppo giovani, e con una coriacea, inattaccabile dose di entusiasmo.
Il pensiero della nostra casa nuova prese possesso di moltissime mie energie, e trascurai un po gli esami. Per quanto i genitori, sia i miei che quelli di mio marito, ci aiutassero con i bambini, regalandoci tutto il tempo che volevamo per studiare, io studiavo poco. Andavo con la mente sempre là, alla nostra nuova casa: dove sistemare un armadio, dove appendere i quadri Tutte cose alle quali avrei dovuto pensare io. Lunica preoccupazione di mio marito erano le librerie, finalmente avremmo potuto sistemare tutti i libri ora sparsi in varie case, in vari scatoloni.
Presi labitudine di andare quasi tutti i giorni alla casa. Eravamo in attesa degli ultimi documenti, e anche della chiamata da parte della residenza per anziani, in Liguria, che avrebbe accolto la nostra piccola mela rugosa. Lei cominciava a chiacchierare mentre mi serviva il tè, la ascoltavo con un orecchio solo e studiavo i particolari dellambiente, ragionandoci su.
"Lei non può immaginare quanto sia contenta che la mia casa si riempia di bambini" mi disse in un luminoso pomeriggio primaverile. La sua voce aveva però un che di rugginoso, e di incerto, come se veicolasse una malinconia di vecchia data. Tanto che attirò la mia attenzione, e mi spinse a farle una domanda.
"Lei ha dei figli?" chiesi. Rispose con un sospiro profondo, guardandosi le piccole mani intrecciate.
"Le racconterò una storia" disse, e unintera vita si specchiò nella voce.
Io non sapevo se essere interessata da quella voce o piuttosto un po insofferente temendo un lungo, noioso racconto. Ma ascoltai. Ascoltai la storia di una giovane donna innamorata, il cui sposo è un uomo di prestigio, ricco, e innamorato di lei. Di come la gioia aleggiasse per quella casa, di come il sole la percorresse sbarazzino anche se fuori pioveva, di quanto questo amore le bastasse, e di come tutto le sembrasse, semplicemente, perfetto.
Poi accadde. Accadde la gravidanza. Difficile pensare che non potesse accadere, ma lei si sentì presa alla sprovvista. Era stato un grande dolore vedere suo marito così felice: perché non era felice per lei, per loro, piuttosto lo era per la pancia della moglie, visibilmente le sue attenzioni non erano più per lei sola, erano per qualcun altro, quel piccolo nessuno, quel soggetto ipotetico, quellinsignificante mistero
"Io non li volevo, i bambini, li temevo disse la vecchia tra un singhiozzo e laltro temevo esattamente quello che stava proprio succedendo, avevo già un avversario dentro di me, ci sarebbe stata competizione, forse una vera e propria lotta, per riprendermi il mio uomo, il mio amore "
Le presi una mano, completamente scarnificata, raggelata, legnosa, percorsa da vene come corde, e la accarezzai. La tenni tra le mie a lungo. Perché non era solo unanziana donna che piange, era un urlo disperato che veniva da un pozzo profondo, pieno di oscurità e vermi. Potevo solo tacere, ed esserci. Tacqui, e cero.
Il silenzio durò parecchio, finché la donna sembrò riprendersi. Sollevò la testa, e mi sorrise. Scosse un poco la testa.
"Sai che combinai?"
Ero pronta a una rivelazione, per di più non così difficile da intuire, vista la situazione. Ma lei superò la mia immaginazione.
"Ero disperata di gelosia e frustrazione, e dolore, e pazzia. Tanto che un pomeriggio decisi che così non poteva andare avanti. Mi buttai dalle scale, ruzzolai del tutto abbandonata da me stessa, rotolavo ma non sentivo male, sentivo che questo era un compimento, e niente altro. In fondo alla scala sono svenuta, e così mi ritrovò mio marito."
Ricordo che la mia attenzione, in quel momento, era allo spasimo: davvero si può desiderare di uccidere il proprio bambino? Dalla inglesissima teiera di Wedgewood la vecchia versò altro tè, prima di riprendere.
"Avevo ottenuto il mio scopo. Non solo, infatti, persi il bambino, ma ebbi anche delle lesioni interne piuttosto rilevanti, che mi avrebbero impedito di rimanere incinta di nuovo. Credevo di avere risolto i miei problemi, solo avrei dovuto con amore e tepore temperare la tristezza di mio marito, riannodare pazientemente i fili del nostro legame, e tutto si sarebbe risolto. Credevo, credevo: ma non sempre la tua salvezza ti salva, ciò che pensavi fosse la tua salvezza ti si rivela come inganno, come quella porzione di pazzia che se ne sta nascosta, di solito, nella vita delle persone normali, che lascia spazio al delirio nelle scelte, ma appena il delirio se ne va "
Si strizzò il naso nel suo piccolo fazzoletto di batista, tanto piccolo che mi riusciva difficile immaginare potesse contenere anche la minima delle secrezioni. Poi mi risultò improvvisamente chiaro il significato di tutte quelle statue che punteggiavano il giardino: erano almeno una quindicina, in uno spazio al massimo di trenta metri quadri, e per di più sbilenco e in salita. Erano tutte figurazioni infantili, bimbetti che saltano la corda, in posizione di corsa, e anche un paio di angioletti. Ecco dunque che la sua presunta arma si era rivelata uno strumento di autotortura. Il suo flagello, le sue devastanti cavallette.
Che avesse vissuto infelice e nostalgica, lo si leggeva nei suoi occhi. Lamore non giustifica tutto, pensai.
La vita proseguì il suo fluire. La nostra bella casa nel corso degli anni diventò sempre più nostra, i figli ci crebbero dentro felici, la vecchietta la chiusi in un ripostiglio segreto della memoria, dimenticandocela dentro. Mio marito diventò un famoso endocrinologo, io una famosa psicoterapeuta (ah-ah!), insomma un percorso molto umano e naturale, tutto evoluto dentro alla nostra bella casa.
Un giorno decisi di lasciare le varie esperienze di lavoro negli ospedali per iniziare la libera professione. I nostri figli erano oramai grandi, uno si era sposato, una viveva da sola, avevamo molto posto quindi, e decisi di aprire lambulatorio al piano terreno. Lì trascorrevo la maggior parte delle mie giornate, parlavo e ascoltavo, ascoltavo e parlavo, talvolta divertendomi, talvolta annoiandomi, come tutti. Talvolta esasperata dalla prevedibilità della routine, talvolta tranquillizzata dalla bellezza della routine.
Poi mia madre, oramai lultimo genitore rimastoci, una donna sempre indipendente e vivace, improvvisamente diventò vecchia. Quasi di colpo, e come al solito tutto ciò avviene con stupore, per i figli. La nostra casa ovviamente non ci poneva problemi, quindi decidemmo di prenderla a vivere con noi, ebbe la sua stanza, il suo bagno, i suoi spazi nei quali avrebbe potuto liberamente esercitare la sua indipendenza, ma avendo noi a portata di mano. Poi di colpo ebbe novantaquattro anni, e si assottigliò, e si asciugò, e rimase un piccolo lumicino nella notte dei giorni, dei suoi giorni, comprendendo poco di quello che le si diceva, facendo ancor meno, sorridente e affettuosa, ma in un suo mondo altro.
Dopo un paio di incidenti casalinghi senza conseguenze, per fortuna senza quelle disperanti rotture di femori che affliggono e devastano gli anziani, decisi che dovevo poter comunicare con lei anche se passavo i due terzi della mia giornata là sotto, e con obbligo di concentrazione. Fu mia figlia ad avere unidea pratica, una volta tanto: comperò un paio di quegli walkie-talkie che servono a sentire il pianto del proprio bambino da una stanza allaltra della casa, che mi sembrarono da subito degli aggeggi molto efficienti. Tentai più volte di spiegarne il funzionamento a mia madre, spingi il pulsante parla, lascia il pulsante ascolta, ma non ci fu niente da fare: la sua mente era impermeabile a qualsiasi nozione appena nuova, ricordava solo le abitudini, me, i nipoti, mangiare, lavarsi, dormire Così mi rassegnai a lasciare lattrezzo sempre acceso. Avrei apprezzato i suoi rumori, peraltro pochissimi avendo lei raggiunto un grado di immobilità notevole, e comunque qualsiasi cosa irregolare potesse succedere.
Lo strano ménage con la macchinetta funzionò senza problemi per alcuni giorni. Ma un pomeriggio, durante la conversazione con una giovane madre in crisi perché innamorata lontano da casa, dalla macchinetta si sprigionò, prima flebile ma via via più chiaro, il pianto di un bambino, anzi di un neonato. Ci guardammo allibite, mi scusai con lei ma dovevo proprio andare a vedere che succedeva al piano di sopra. Trovai mia madre tranquillamente addormentata nella sua poltrona davanti alla finestra, e nientaltro. Scesi e la giovane donna mi disse che mi aveva sentito distintamente muovermi nella stanza di mia madre, che il pianto era terminato non appena avevo aperto la porta, e non si era più sentito.
Strano, dissi, e ridemmo appena nervose, come succede di solito, ed è uneccellente difesa, quando accade qualcosa che non comprendiamo.
Poi la giornata proseguì con il susseguirsi inarrestabile dei pazienti, e dimenticai tutto. Ma dopo tre giorni, nel corso di un incontro con un medico dalla modica depressione ma dai robusti dubbi esistenziali, ecco che la cosa accade di nuovo. Provocando lo stesso sconcerto della volta precedente, e con lo stesso risultato: nulla.
Quella sera, a tavola, ne parlai a mio marito, che non ci fece troppo caso: sarà una famiglia che ha un bambino e un attrezzo analogo, in una delle case vicine. Oh, certo, questa era la spiegazione ovvia e razionale. Ma può una psicoterapeuta che ha letto e aspirato Jung accettare la più facile delle spiegazioni?
Così mi diedi da fare. Lessi con attenzione il manuale duso del walkie-talkie, dove si diceva che le macchinette funzionavano a una distanza massima di trenta metri. Guardai da tutte le finestre, su un lato cera la strada e nessuna casa di fronte, su un altro una casa se ne stava ad una ventina di metri di distanza, sugli altri due senzaltro qualche metro in più. Con pudore e non chalance mi informai sullo stato riproduttivo di tutte le mie vicine, ricavandone che non esistevano bambini piccoli in quelle case almeno nel raggio di duecento metri. Quindi?
Fu dopo questa modesta indagine che mi tornò alla mente la piccola mela rugosa che aveva abitato nella nostra casa fino a trentanni prima. Mi tornò alla mente la sua storia, la storia del suo bambino mai nato, e me ne andai in giardino. Le statue infantili le avevo tutte accumulate, disordinatamente, nellangolo acuto del giardino, ripromettendomi un giorno di trasportarle altrove. Lì stazionavano ancora, da trentanni. Le guardai cercando di comprenderle, era il gruppo di bambini del tempo ingessato, della non evoluzione, della vita aperta e chiusa in un battere di ciglia. Erano la ricerca di unallegria mai raggiunta, il tentativo di ritorno a un mondo che invece non sarebbe tornato più. Ma non esprimevano dolore, erano bambini giocosi, dinamici nella loro rocciosa immobilità. Capii, sorrisi, tornai in casa e, fortunatamente, ancora una volta nulla cambiò.
Solo, tutte le volte che il pianto ritorna, abbasso il volume della macchinetta, e sorrido con una punta di affetto.