Caterina Spina

TRE GIORNI

Non sa decidersi.

Il vetro appannato di fiato caldo d’attesa. Le gocce sul vetro. Come schegge.

— È quasi ora.

— No, non ancora.

Marta è bruna, occhi neri e sguardo assente.

Marta ogni tanto perde il suo tempo. Lo chiama così quel suo piccolo disturbo. Ogni tanto, nei momenti più inaspettati, perde i sensi. Sviene. Al risveglio, il vuoto di un tempo indeterminabile. Marta perde il suo tempo.

Oggi non potrebbe. E lo desidera. Perdere per recuperare.

L’auto accostata al ciglio della strada sotto un lampione, sotto il ronzio di un lampione acceso, guardiano inconsapevole, testimone incosciente.

— Piove a dirotto.

— Cosa vuoi che importi ora.

Mani sul volante e sguardo fisso sulla strada poco illuminata. Il traditore. Sudato senza calore. Quel sudore estraneo che solo la testa può dare, non il corpo. Nervoso e rigido. Anche i traditori tremano, ridono e sorridono, piangono e temono. Sono uomini come tutti gli altri, solo più infimi. Irriconoscibili. Neanche adesso che ce l’ha davanti, Marta, potrebbe distinguerlo dagli altri.

Eppure lo conosce bene ormai. Hanno passato ore in macchina, in quei tre giorni. A girare senza dove, furiosi di parole che uscivano deformate. Senza tregua. E dopo il silenzio. Insieme di botto. Nessun imbarazzo, niente rabbia. Solo la necessità di riprendere fiato. Lo sfrigolio simultaneo di due sigarette alla prima aspirata. Poi ancora uno sguardo istantaneo, nuove parole che si scontrano e si confondono.

Sempre così, ogni volta. Sempre, anche quando Marta si allontanava senza tempo persa da qualche parte, dentro. Lui era lì. È rimasto sempre.

Hanno fumato ininterrottamente, questa sera, alla ricerca di una soluzione. Senza dirselo. Solo ora, stremati, sentono la tensione latente. Di colpo presenza palpabile. Si ritrovano allo stesso punto di partenza.

— Non ha senso aspettare ancora

— No. Non ancora, non adesso.

Lui e Marta si sono conosciuti là dentro, oltre quel cancello. Adesso dall’auto, con la luce del faro che illumina solo a metà il viottolo stretto, con la pioggia incalzante, le gocce sul vetro che si diramano in tutte le direzioni creando percorsi possibili; adesso sembra ancora più inaccessibile, ancora meno invitante.

Si sono conosciuti per caso, alla casa di cura Ospizio marino: lui andava a trovare la sorella in ricovero temporaneo, Marta invece era già dentro, in degenza a tempo indeterminato. Non è stato amore a prima vista, né attrazione: curiosità. Un ubriaco e un sobrio che si fermano a guardarsi. L’ubriaco parla, il sobrio lo sta a sentire.

Dapprima solo sguardi, circospetti e indagatori. Stessa intensità. Poi, piano piano, qualche parola, qualche battuta, a volte una sigaretta fumata insieme.

Marta, ironia tagliente, capelli lunghi e gesti morbidi, raccontava aneddoti di quel posto come chi passasse di lì ogni tanto, per caso, a godersi lo spettacolo. Non la si sarebbe mai detta una degente, semmai una presenza vaga e leggera in quell’ambiente bloccato tra il presente e il passato. Al motivo per cui invece era lì ormai da quattro dei suoi ventisei anni faceva riferimento solo di rado.

Lui la cercava ogni volta. Lui bloccato nel presente. Senza passato e futuro, dimenticati entrambi in fondo a una serie di doveri che occupavano tutte le sue giornate. Marta era diventato un altro dei suoi doveri, ma non era compassione, né pietà. Era svago. Stava ad ascoltarla e sorrideva senza fare troppe domande. Il piacere di sentirsi raccontato un mondo che non gli apparteneva. E quando Marta incespicava nel suo tempo lui aspettava che tornasse, pazientemente.

È stato in uno di quei momenti che Marta ha espresso il desiderio di rivedere quello che non vedeva più da molto tempo: il fuori. È stato dopo una lunga chiacchierata in cui per la prima volta Marta aveva parlato di sé e non di quello che le girava intorno. È stato in uno di quei momenti, in quel frangente di tempo in stallo di Marta, che lui ha deciso di portarla via.

La sorella sarebbe uscita di lì a pochi giorni. Nel frattempo lui avrebbe potuto portare Marta in giro. Poi le avrebbe trovato una sistemazione, in fin dei conti il suo disturbo non era così grave, avrebbe potuto tenerlo sotto controllo.

Marta era tornata, di nuovo. Alla proposta, è stato lo sguardo a parlare per lei. Gli occhi si sono posati a lungo su di lui: la fermezza è stata la sua risposta. Da molto tempo aveva cominciato a credere che tutto si sarebbe fermato lì, non oltre quel cancello. E invece lui: la possibilità di movimento, di nuovo.

Tutto era stato sistemato in breve tempo. Un giovedì lui ha preso qualche giorno di permesso. Sono partiti senza una meta precisa. Ma il primo posto verso cui si sono diretti è il mare.

— Che beffa chiamare quel posto Ospizio marino.

È stata l’unica osservazione di Marta, lì, con i piedi nella sabbia e la faccia bagnata.

Hanno girato paesini sconosciuti, mangiato cibi dimenticati, parlato con gente di qualsiasi tipo. Marta aveva la sfrontatezza di chi riscopre tutto. Parlavano di continuo, si raccontavano e si scontravano.

Nelle pause di silenzio, a volte, Marta usciva la testa dal finestrino, il suo sguardo vago libero di vagare, lui si concentrava sulla strada, e soddisfatto si godeva il piacere della guida.

È stato a una sagra, una di quelle feste di paese dove l’atmosfera si confonde in aromi di cibi arrostiti e vento d’estate, chiacchiericcio e musicisti allo sbaraglio su palchi arrangiati. È stato lì che ogni cosa è tornata al proprio posto. L’ubriaco sta male e il sobrio lo sta a guardare. Disgustato cerca d’aiutarlo.

Marta è crollata e lui con lei. Non è stata una crisi passeggera, non sono stati sprazzi di tempo, Marta ha rischiato di perdere tutto il suo tempo. Nel frastuono intorno, cadendo ha cominciato a tremare, gli occhi aperti e la bocca riempita di bianco.

È stato come risvegliarsi. Tutti i suoi doveri, i suoi piccoli doveri gli sono tornati alla mente, affollandola. Marta no, Marta era un dovere troppo grande per lui abituato ai suoi, quelli che si è creato negli anni, ben progettati. Fatti per non concedere spazio ad altro. Gli sono tornati in mente, piccoli ma presenti. Di lì in poi è stata tutta una corsa: l’ospedale, la sala rianimazione. Gli occhi di Marta.

Anche questa volta non ricordava nulla. Frastornata, si è seduta in macchina, il mattino dopo.

Ed è stata ancora corsa, in silenzio. La meta conosciuta.

Davanti al cancello Marta continua a non fare domande, chiede solo tempo. Vorrebbe urlare tutta la rabbia verso quell’uomo che l’ha tradita. Quell’uomo che le ha dato l’illusione della normalità e poi se l’è ripresa. Ma non lo fa. Marta sa che quel suo piccolo disturbo la seguirà per tutto il suo tempo. A tratti.

— È ora di andare.

Il silenzio è la risposta.