Silvia Albertazzi
Guru Vandana
All Things Must Pass
Beware of Darkness
Here Comes the Sun
The Inner Light
Onore al grande George Harrison
Questo il messaggio apparso sul suo computer, inatteso, sabato mattina; "Gat Kirwani", la firma. Max non faticò a riconoscere il suo compagno di banco di trenta e più anni prima dietro l'esotico pseudonimo. Quello che lo sconcertò fu, semmai, il vederlo riapparire così, all'improvviso, da chissà quali profondità del passato, dopo secoli di silenzio. Non sapeva se essere più contento o sorpreso. Da quanti anni non vedeva l'amico? Una decina, forse più. E adesso, quattro titoli di canzoni a formare una specie di poesia, in onore di un musicista defunto: "tutto passa/ temi l'oscurità/ ma ecco il sole/ la luce interiore", tradusse all'impronta, cercando di dare un senso a quelle quattro righe. A quei quattro versi. "Una quartina sulla morte e la vita oltre la morte", pensò. "Una quartina di speranza. Ma certo: onore al grande George Harrison. E speriamo che al di là del buio, abbia già incontrato la luce interiore!" Si sorprese del proprio sentimentalismo: non era da lui, materialista convinto fin dall'adolescenza, filosofeggiare sulla vita eterna a quel modo. Il poeta, fin dai tempi della scuola, era Gat: Max era il contadino, semmai, lo spirito pratico, o meglio, come credeva allora, con l'ingenuità dei diciott'anni, il politico. "Gat Kirwani!", sorrise quasi suo malgrado, "Gat Kirwani, l'arciere indiano! Ma guarda, dopo tanto tempo!" Si ritrovò a pensare al personaggio fantastico che avevano immaginato, partendo dal titolo di un brano di George ispirato all'India: né lui né l'amico sapevano che cosa fosse un gat, nel subcontinente. Così era nato il mitico Gat Kirwani, eroe senza macchia e senza paura che, armato di un magico arco dalle frecce stregate, combatteva in difesa dei poveri, contro tutti i soprusi perpetrati dai ricchi di tutta la terra. Gat era una sorta di Robin Hood indiano, marxista, che difendeva i proletari di tutto il mondo: tendendosi, il suo arco emetteva un suono simile a musica di sitar; le sue ieratiche parole riecheggiavano le liriche delle canzoni indiane di George.
A Gat avevano affiancato un altro personaggio, il Guru Vandana, ugualmente ispirato dal titolo di un brano musicale di Harrison. E Max era il Guru, il Maestro. Gat e Guru erano inseparabili, come Butch Cassidy e Sundance Kid, che allora facevano la loro prima apparizione sugli schermi italiani. Certo, Gat e Guru erano meno belli di Paul Newman e Robert Redford; non erano biondi e non avevano neppure gli occhi azzurri. Però, con un po' di fortuna, un giorno avrebbero trovato anche loro una maestrina da amare, tutt'e due insieme, e ne avrebbero condiviso i favori senza litigare, come Butch e il Kid. Per ora, comunque, le donne erano assenti dal loro mondo. Trovavano insulse le ragazzotte della loro classe, e nel tempo libero preferivano lasciarsi andare al gioco di Gat e Guru per interi pomeriggi. Certo gli altri li consideravano strani, ma a loro proprio non interessava riuscire simpatici ai futuri ragionieri con cui erano costretti a passare tutte le mattine e ai loro insegnanti.
Agli insegnanti, anzi, avevano sempre fatto di tutto per riuscire antipatici: studiavano poco e male; usavano i temi in classe come proclami per diffondere le loro idee sovversive; prestavano scarsa attenzione alle lezioni che, il più delle volte, finivano per disturbare, scambiandosi commenti ad alta voce o battute estemporanee. Facevano, in altre parole, tutte le cose che ora ogni giorno Max rimproverava a suo figlio. Gat e Guru, Guru e Gat, Gat e Guru: per quanto tempo era andato avanti il loro sodalizio? Avevano superato insieme gli anni della scuola, l'esame di maturità, l'attesa della cartolina precetto, la ricerca di un lavoro. Non erano stati i quindici mesi al servizio dello stato a separarli, anche se erano partiti in periodi differenti e ognuno di loro li aveva trascorsi in una località diversa. Non era stato l'ingresso nel mondo adulto del lavoro a dividerli, anche se i nuovi impieghi imponevano loro orari e turni non coincidenti. Non erano state neppure le donne a porre fine alla loro amicizia, anche se non erano mai riusciti a trovare la maestrina con cui mettere in piedi un ménage à trois come quello di Butch e Kid. Era stato il tempo, ecco tutto. Avevano cominciato a vedersi sempre meno, a frequentare ambienti diversi, e poco alla volta si erano persi di vista, come capita a tutti.
Si sforzò di ricordare com'era Gat quando l'aveva incontrato l'ultima volta, dieci e più anni prima. Allora Max era rimasto colpito dalla sua incipiente calvizie e dalla pancetta che affiorava sotto il maglione oversize. Certo oggi il ragazzino magro e capelluto di un tempo era già un signore di mezza età pingue e calvo. Ma del resto anche lui, Max, com'era, oggi? Si alzò e si avviò in bagno. Chiuse la porta, si tolse il pigiama e restò nudo di fronte allo specchio. Si osservò a lungo, senza pietà. Dei due, una volta, lui era il più bello: anche se non era Newman o Redford, era conscio tuttavia di avere un fascino particolare, di essere a suo modo piuttosto attraente. Era alto, snello, atletico; aveva uno sguardo che qualche ragazza, un po' più tardi, avrebbe definito magnetico e lunghi capelli neri ondulati; tantissimi, lunghi capelli neri. Ma l'uomo che ora vedeva nello specchio aveva pochi peluzzi radi sul capo e suppliva alla perdita delle chiome lasciandosi crescere una folta barba, purtroppo sempre più bianca. Il suo fisico, poi, aveva perso di tono da un pezzo, e persino gli occhi non erano stati risparmiati dall'usura del tempo: ogni giorno dovevano subire l'onta delle lenti da presbite. Magari, tutto vestito riusciva ancora a fare la sua figura. La mattina, quando usciva con la giacca firmata e la camicia e la cravatta in tinta aveva un aspetto interessante, proprio da Guru: ma così, senza vestiti, che tristezza!
Si infilò in fretta nellaccappatoio azzurro, cercando di non pensare a quellaltro se stesso, quello di più di trentanni prima, che partiva ogni mattina alla conquista del mondo in jeans e eskimo. Eskimo? Solo quelli della sua generazione potevano ricordare questa parola. Parka, avrebbe detto suo figlio, o magari Woolrich ma eskimo, eskimo solo un diciottenne dantan poteva ancora usare questo termine. Pensò che Gat, lui sì avrebbe subito visualizzato lamico di un tempo, chiuso nel giaccone impermeabile col cappuccio orlato di pelo grigio che laveva protetto dal freddo per tanti inverni. Fu preso da una gran voglia di rispondergli, quasi che mettersi in contatto con Gat significasse abolire il tempo come per magia, tornare quelli di allora, cancellare le rughe, sgonfiare la pancia, infoltire i capelli, ma, soprattutto, alleggerire la mente, spazzare via i pensieri e dar corso libero alla fantasia. Ma, seduto di fronte al computer, si accorse di avere la testa vuota. Un baratro, un abisso di niente: non un pensiero adatto alloccasione, né intelligente né stupido, né spiritoso né serio.
A metà mattina, per trovare ispirazione, disseppellì un vecchio album fotografico zeppo di istantanee scattate durante gite scolastiche ormai dimenticate e vecchissime foto di classe. In quegli anni il loro mito era il fotografo protagonista di Blow up: sognavano di imitarlo, una volta preso il diploma, e intanto non perdevano occasione per scattare fotografie, in giro per strada, in casa, dovunque capitasse. Max non poté fare a meno di constatare, con una certa amarezza, che, oltre ad appesantirsi e a perdere i capelli, né lui né lamico erano diventati fotografi, da grandi.
Non erano diventati fotografi e neppure scrittori o registi cinematografici o creativi pubblicitari. Non erano diventati nessuno, solo due impiegati condannati al lavoro dalle 9 alle 5 tutti giorni, da lunedì a venerdì, fino alla pensione. No, certo non avevano combinato molto, almeno non secondo gli standard che si proponevano da ragazzi. Si guardò intorno, cercando di raccogliere in un colpo docchio i traguardi raggiunti in tre decenni: aveva un figlio che assomigliava fin troppo al Guru Vandana di tanti anni prima e una donna che stava invecchiando insieme a lui, forse meglio, forse peggio, a seconda dei giorni, delle stagioni e degli umori. Non si sentiva triste, ma smarrito, come se una malinconia leggera gli piangesse dentro, gentilmente, come la chitarra di George. "While My Guitar Gently Weeps", scrisse, senza troppo pensarci, nella prima riga della sua risposta a Gat. E poi aggiunse, sempre senza rifletterci su, "Only a Northern Song", perché in quel momento tutta la sua vita, spesa tra le nebbie della sua città settentrionale, gli sembrava proprio nientaltro che una canzone del Nord, una piccolissima canzone, di quelle che si dimenticano appena ascoltate, ma il cui ritornello poi compare, quando meno te laspetti, a farti compagnia nei momenti di vuoto. Una piccola canzone del Nord: non molto, ma qualcosa di certo. Qualcosa. Digitò sulla terza riga del suo messaggio tre puntini di sospensione e poi scrisse "Something", "qualcosa". Ora il messaggio era concluso.
While My Guitar Gently Weeps
Only a Northern Song
... Something
Gat avrebbe capito. Gat si sarebbe riconosciuto in quella piccola canzone settentrionale, pianta gentilmente da una chitarra indiana nel giorno della morte di George. Gat avrebbe capito Qualcosa. Non restava che firmare. Inserì le maiuscole e scrisse, un paio di righe più sotto, in fondo al messaggio:
GURU VANDANA