Valeria Cimò

IL LUPO ERO IO

Una preghiera a Maria.

Il gruppo è nato due anni fa.

Musica medievale. Voci da claustro. Archi, tamburi, cavalli al galoppo. Vergini molli che si uccidono. E io lì a suonare parole passate, a riprodurre battiti di amori morti da secoli.

Ho il petto largo. Così la darabukke risuona meglio. Credo. Non c’entra niente.

Quando prendo il suono tra le palme e la punta delle dita me ne vado da qualche parte col cranio che mi vibra vicino le orecchie. Ritmi dal sangue vengono fuori, all’aria.

Una preghiera a Maria. Stridula vita dal ritmo diverso. Di sterco di scarpe lacere, di commercio nei borghi. Una preghiera a Maria in spagnolo e anche un po’ in francese.

Dovevano camminare molto ne medioevo. Perché camminando senti il moto e la scansione del corpo.

Fabrizio suona la cornamusa. Ma la cornamusa ha bisogno di spazi grandi. Quelli con le pecore che puzzano di formaggio, prima di essere munte, e l’erba fa acre la terra. Fabrizio punta la canna di legno della cornamusa al suolo e col mignolo se la tiene distante dall’uccello. Nell’altro gruppo il violoncellista si mette lo strumento tra le cosce allargandole come una puttana.

Così vorrei prenderla. Con le cosce larghe, a trattenermi.

Domani mattina sarà sicuramente in casa. Io mi alzo di notte, per via del concerto a mezzogiorno, e lei è lì. Ha un marito, un figlio. Sta famiglia non si era mai vista da queste parti. Hanno affittato la casa quest’anno.

Areta suona il flauto. Quello di legno, chiaro, che sembra appena scolpito in un fuscello d’ulivo. Che odora ancora di linfa. Areta è dolce e scarpe aperte. Sandali bassi bassi.

Sorriso discreto come il suo flauto, risata decisa. La sua risata è un accordo maggiore.

E’ intelligente la tipa. Buon umore sempre. La voglio accanto quando suono. Areta col flauto in bocca è la parte femminile della nostra musica. Anche se non canta.

Il flauto parla con la voce sua. Voce di donna appena matura. E’ giovane.

Stanotte il concerto non finirà prima delle tre. Cena tra noi. Alle cinque a casa. Gandolfo berrà il suo whisky, dice che dopo tutto quel cantare gli serve addormentare le corde vocali. Mandarle a nanna. Stonarle un poco. Ingolla i piccoli sorsi come se fossero bollenti. Poi stira le labbra in un sorriso.

Per svegliarsi così sgualcita ogni mattina non dormirà nemmeno lei. Oppure mi aspetta. Mi aspetta sgualcita apposta, per farmi sentire il suo odore da lontano. I Giudice l’affittano sempre il villino accanto al nostro. E’ la prima volta che ci viene una donna così bella. Soda. Capezzoli duri. Quarant’anni pressappoco, a giudicare dai sottili solchi sul collo. Uguali a quelli di mia madre legati con una sola forcina.

Percuoto le pelli dei miei strumenti. Conosco le loro tensioni, gli impercettibili noduli di quelle vecchie, lo strato di grasso sulle venature più scure.

Ora il suono si è fatto bolla. Quando entro nella bolla il suono si fa da solo.

Li scelgo, certo, i suoni, ma si fanno anche da soli. Mi sembra di non partecipare più.

E’ a questo punto che premo le mascelle. Sotto le sopracciglia una vena si gonfia. A volte mi eccito. Senza turgori. Mi eccito sotto il fisico.

Il massimo è fare l’amore dopo un concerto. Tutta l’energia che ho espanso nell’aria si concentra sul mio sesso.

La sposa matura e sgualcita mi aspetta. Ieri una bretella le scivola su una spalla non troppo casualmente. Poi la bretella è sgusciata fuori dal braccio. Mi dava la schiena e il sole le imbiondiva la leggera peluria sulla nuca. La sagoma delle cosce le traspariva dal prendisole. Il culo come lo disegnerebbe un pittore. Largo. Sottile curva di grasso su cui affondare mani e unghie.

Ha scelto me. Ha scelto me per il suo gioco di occhi vissuti. Di corpo con cui masturbarsi a vent’anni. Di pelle da immaginare. Pensare. La penetrerei fino a farla gridare.

Questa mattina uscirò fuori in mutande, così la smette di scherzare con quelli troppo più giovani di lei. Non si vergognerebbe a guardarmi esattamente lì. Allora sarò io a farmi desiderare. Toccandomi.

Guarda.

Guarda.

La bolla è scoppiata. Il concerto finisce. Sono stanco. Un poco di adrenalina sotto le ascelle. La mia camicia è bianca di lino. Un laccio le pende dal collo. Tanti mugolii dalla platea, sembrano un sollievo. La gente si alza dalle poltrone parlando. La gente non sopporta di stare muta troppo tempo. Gli uomini si aggiustano le cinte, le borse tornano ad appendersi agli omeri delle donne.

Luci in sala. Adesso al buio siamo noi. Raggomitolo i cavetti dell’amplificatore. Fabrizio mi porge la sacca degli strumenti. Una tasca per ogni cosa. Tranne per i piatti. Quando la butto sulla schiena la sacca tintinna. Mi sento un appestato. Un poco di peste c’era pure tra gli odori della preghiera a Maria. Gli appestati nel camino de Santiago.

Non so nemmeno come si chiama. Lei sa che nome ho. La sento quando chiede di me a mia madre. Si offrono il caffè da un terrazzo all’altro appoggiando i gomiti sulle ringhiere azzurre.

Da mia madre attinge tutte le informazioni utili.

Ne ha avute un bel po’. Che suono le percussioni, che ho ventun anni, Che Monica è la mia fidanzata, che al mare non vado mai con loro perché rientro a notte fonda. Oggi ho caricato la macchina con una lentezza esasperante. Eppure avevo pochi strumenti da portare al concerto.

Lei stiracchiava gli avambracci sulla lettiga di legno, poi guardava il mio andirivieni con la fessura appena aperta degli occhi. Io lento. Io lento.

Alzavo il naso e a vederla così donna immaginavo di accarezzarmi la barba. Folta e ben rasa. Come quella di un uomo.

Era così brava a muovere quella sua testa tonda da far credere che mi stesse salutando per poi risolversi in un gesto di distrazione. Io capivo lo stesso.

L’ultimo degli strumenti l’avevo messo giù a cuccia nel portabagagli, quando lei si è alzata. Uno sguardo molto più eloquente mi diceva in bocca al lupo. Fosse stato un augurio materno avrebbe gridato un po’ occhieggiando la stessa frase. Ma non l’ha detta.

Io mi ero fermato alla parola bocca. Durante il viaggio la pensavo spalancata di piacere sulla faccia.

Il lupo ero io. E digrignavo i denti con la lingua sui canini.

Sono stanco. Le luci hanno smesso di sbattermi sugli occhi. Ti accechi quando si spengono. Le pupille si fottono nel buio.

Un momento di fibrillazione al cuore. Stac. Come fai a convincere il cuore che deve smettere di accordarsi agli strumenti. Se ne va per i fatti suoi. Per dieci minuti circa dopo l’ultima luce. Fin quando non mi lavo la faccia con l’acqua fredda, in camerino.

Ma per smettere di sentire quella pulsione lì l’acqua fredda non basta. Solo un bagno a mare. Che lei a quanto pare non fa mai. E per tacere il grido tra le gambe mi cerca. Niente coraggio.

La sua pelle è scura di sole da sedia a sdraio. Niente acqua salata. Troppo lucida. La sua pelle. Senza tensione. E sento il suo odore di cagna. Sola dentro casa cammina nuda, e io attraverso i vetri a leccarla con gli occhi.

Si fa guardare giusto la peluria più soffice. Si unisce all’altezza delle ossa strette del bacino. Carni che si frantumano dietro le tende scacciamosche. Di bossoli chiari, di legno, come il flauto di Areta. Lievi rumori e suono caldo. Ventoso.

Le ultime carezze al pubblico sono spettate a me stanotte. Assolo di due minuti. Affinché si ricordino di noi. Le ultime vibrazioni nell’aria le ho lasciate io. Gente. Sentite. Godete. Senti anche tu donna.

A domattina.