SILVIA ALBERTAZZI

BOLOGNA, SE CI FOSSE IL MARE

Sbucando sulla piazza Maggiore da via D'Azeglio, Laura si trovò di fronte a una visione inattesa. Decine di persone - giovani, vecchi, donne, ragazzi - stavano sdraiati sul crescentone, supini, a occhi chiusi. Indossavano ancora le giacche pesanti, i maglioni dell'inverno appena trascorso; ma accanto ad alcuni di loro giacevano le scarpe con la para, gli scarponcini da pioggia, mentre altri avevano slacciato gli anfibi ai piedi. Stavano tutti lì, immobili; nessuno alzava un braccio, neppure per scostare una ciocca di capelli che il vento faceva scivolare sugli occhi; nessuno piegava un ginocchio, neppure per sgranchirsi appena le gambe. Sembravano tutti profondamente addormentati, o peggio, morti. "Che sia successo qualcosa stanotte? Scoppiata una bomba? Che sia questo il day after?", si domandò Laura. Ma poi, ripensando alle persone vive, alle automobili e agli autobus che aveva incrociato strada facendo, come ogni giorno, si limitò a chiedere a Livia, che la seguiva qualche passo più indietro: "Che cosa fanno questi? Che cosa aspettano?" "Tintarella", fu la laconica risposta.

A ripensarci, quello era, in effetti, il primo giorno di sole dopo tanto freddo, tanto grigio, tanta acqua. Si era già alla fine di aprile - anzi, ormai a maggio - e ancora nessuno aveva riposto gli indumenti pesanti. Le temperature erano scese paurosamente durante l'ultimo mese, invece di salire; a Pasqua si era avuta persino una spruzzata di neve. E ora, improvvisamente era uscito il sole, inaspettato, e persino caldo. Si poteva capire che la gente volesse goderselo, immagazzinarlo quasi, nella paura che sparisse nuovamente, magari per altri mesi, che per quell'anno, come già tutti avevano cominciato a sospettare, l'estate non arrivasse proprio. Eppure, a Laura facevano tristezza quelle persone accovacciate sul cemento, quegli uomini, quelle donne che, nel pieno centro cittadino, si volevano illudere di stare sulla spiaggia. "Ma perché non se ne vanno ai giardini Margherita?" chiese, più a se stessa che a Livia. E continuò: "Starebbero più comodi, in mezzo all'erba, vicino al laghetto.

Perché non vanno ai giardini?" "Cacche di cane", rispose Livia, che era sempre di poche, ma significative, parole.

Prima di decidersi ad attraversare la piazza, Laura si fermò a guardare ancora una volta lo spettacolo. Alcuni di quei corpi cominciavano a spostarsi, quasi impercettibilmente. Un giovane si avvicinava a una ragazza; un uomo alzava appena la mano per schermarsi gli occhi rivolti verso il sole; un vecchio si grattava il cranio lucido, distratto. Adesso che l'immobilità del quadro era infranta, Laura aveva quasi paura a passare in mezzo a quelle persone. Se qualcuno avesse allungato una mano per afferrarla? Se l'avessero fatta inciampare? Se si fosse ritrovata riversa su uno di quei corpi? Fece un respiro profondo e poi un passo, lunghissimo, e un altro ancora più lungo, e guardando dritta davanti a sé, senza mai abbassare lo sguardo a osservare quelli che là sotto, sdraiati, prendevano il sole, iniziò a camminare senza fermarsi. Intanto pensava che quelle persone tanto smaniose di sole da buttarsi a terra ad adorarlo sul cemento sporco sarebbero state perfette in certe cartoline che tutti i tabaccai vendevano quando era bambina. Erano istantanee dei maggiori monumenti di Bologna circondati dall'acqua; fotomontaggi di vedute bolognesi immerse tra le onde, con sotto la scritta, a caratteri gotici, spesso dorati, "Bologna - se ci fosse il mare …" Di solito, in quelle cartoline non appariva la gente: erano visioni di un mondo spopolato, quasi che l'assenza dell'uomo fosse il prezzo da pagare per accrescere la bellezza della città. L'uomo avrebbe rovinato quel mondo magico. A Laura bambina piaceva soprattutto la cartolina dove si vedeva San Petronio trasformata in un'isola al centro della Piazza Maggiore sommersa dalle acque. Ovvio: non c'erano persone. Anzi, se ricordava bene, l'immagine era notturna: un vero e proprio sogno. E adesso, ecco che la gente sembrava prendere possesso di quel sogno, e trasformarlo in un incubo post-atomico, o così almeno le pareva.

Nel centro del crescentone si accorse che stava correndo. Inciampò in uno zainetto; riprese a correre, il fiato in gola. Al momento di attraversare la strada, avvertì un tonfo alle sue spalle. Non si girò, anche se nelle sue orecchie ora ronzava uno strano sciabordio. Senza preoccuparsi di guardare a destra o a sinistra si gettò nella strada. Quattro passi, il campanello di una bicicletta da cui rischiava di farsi investire, e si ritrovò sotto al Pavaglione. "Livia", chiamò, "Livia, andiamo!" Al sicuro nell'ombra del portico, si voltò per cercare l'amica. Ma non la vide, come al solito, tre passi più indietro. A larghe bracciate, Livia stava nuotando, serena e sorridente, verso San Petronio. Le sue scarpe, la sua borsa, il suo cappotto, abbandonati sul gradino del crescentone, si bagnavano, lambiti dalle onde.