MAX FRISCH

IL NOSTRO BISOGNO DI STORIE

(Traduzione dal francese di Manuela Pasquini)

Quando un narratore sostiene di ricordarsi con precisione come soffiava il vento alle sette di sera, ventuno anni prima, io non sorrido. Gli credo. Ma per quanto mi riguarda, confesso che quando si tratta di sapere quel che mi è successo ventuno anni prima, non mi sento la memoria di un narratore, né quella di un testimone alla sbarra: non so mai com’era. So le cose in modo diverso. Non come si conosce una storia, ma piuttosto come si presagisce l’avvenire. Sento le cose come delle possibilità, me le rappresento come attraverso un gioco dell’immaginazione. Credo che noi non raccontiamo mai le cose come furono, ma come ci figuriamo che potrebbero essere se dovessimo riviverle. Un’esperienza è un presentimento. Questo non è vero solo per gli scrittori, è vero per tutti. Come è andata quando ho lasciato questa o quella situazione per stabilirmi in una città straniera? Lo so perché posso immaginare ciò che succederebbe se io oggi me ne andassi per stabilirmi in una città straniera. O addirittura: che cosa proverei se domani vincessi alla lotteria? Penso di saperlo. Come? Non ho mai vinto alla lotteria ma ho fatto ugualmente questa esperienza.
Dove? Non ne so niente. Quando? Mistero. Ma io ho fatto questa esperienza. La mia immaginazione può testimoniarlo. Quando cerco per esempio di figurarmi ciò che potrebbe succedere se nascessi una seconda volta, quando metto in scena qualche cosa che non è mai esistito e che non esisterà mai, la mia esperienza si rivela più pura di quando cerco di precisare ciò che succedeva alle sette di sera, ventuno anni prima. Prendiamo le cose diversamente: nella nostra vita, noi abbiamo forse due o tre esperienze: una paura che suscita mille immagini; un poco di speranza, che non ci potranno mai togliere; dei sentimenti che si sgranano come un rosario che sempre ricomincia, e poi alcune impressioni retiniche che si ripetono raramente, benché il mondo sia come il modello da cui ricaviamo i nostri ricordi. A questo proposito noi abbiamo forse un pensiero che ci è proprio e che allungheremo e diluiremo in mille modi. Ecco ciò di cui noi disponiamo quando raccontiamo qualche cosa. Dei campioni di avvenimenti -ma nessuna storia, lo asserisco, nessuna storia! Le storie ci vengono solo dall’esterno. Da dove nasce, allora, il nostro bisogno di storie? Non si può raccontare la verità. Ecco la questione. La verità non è un racconto, non ha né inizio né fine, è semplicemente presente o meno, lacera il nostro universo di illusioni, è esperienza. Ma non è storia. Tutte le storie sono delle invenzioni, dei giochi dell’immaginazione, dei bozzetti di esperienze, delle immagini con quel poco di verità che questo comporta. Ogni uomo - e non solamente i poeti - inventa le sue storie. La sola differenza, è che tutti gli uomini, fatta eccezione per i poeti, confondono le loro storie con la loro vita. Se non lo facessero, gli eventi che hanno potuto conoscere, vale a dire la loro esperienza personale, resterebbe indecifrabile. Ecco come vedo le cose: l’esperienza è un evento interiore, non il risultato di un evento esterno. Un solo e unico fatto vissuto può nutrire mille esperienze. Forse non esiste altro mezzo, per comunicare un’esperienza, che quello di raccontare degli avvenimenti esterni, quindi d’immaginare delle storie. Come se l’esperienza fosse il frutto di queste storie. Penso che sia vero il contrario. Il frutto, sono le storie. L’esperienza vuole rendersi decifrabile, trova una cornice in cui inserirsi. Per questa ragione si colloca preferibilmente nel passato: c’era una volta. Un avvenimento che ci ossessiona perché ha il potere di esprimere la nostra esperienza non necessariamente deve essere accaduto, ma perché gli altri comprendano e credano alla nostra esperienza, perché noi stessi possiamo crederci, facciamo come se fosse realmente successo. Tutti agiscono in questo modo, e non solamente gli scrittori. I racconti sono dei progetti situati nel passato, delle costruzioni dello spirito che noi spacciamo per delle realtà. Ogni uomo s’inventa una storia che in seguito confonde con la sua vita, spesso al prezzo di pesanti sacrifici. A meno che non s’inventi una serie di storie, confermate da tutta una rete di luoghi e di date, in modo che non si possa dubitare della loro autenticità. Lo scrittore è il solo a non credere a questa commedia. Ecco la differenza: nella misura in cui io so che ogni storia, per quanto possa essere confermata da fatti concreti, non è che il prodotto della mia immaginazione, io sono uno scrittore. Un’esperienza nuda e cruda, priva di un contorno, e che non si vuole nata da un racconto veritiero, è quasi insopportabile. L’esperienza ha valore nel momento in cui rende credibile la storia che inventa. Ma lo ripeto, non è il frutto, di questo o di quell’evento vissuto, è un evento interiore. È a questo titolo che la sua esistenza dovrebbe essere giustificata, anche se so che la storia raccontata non è successa e mai succederà, anche se rinuncio all’illusione dell’imperfetto epico, all’inganno della narrazione. Malgrado le pretese dei narratori, la storia vissuta non è all’origine dell’esperienza. L’esperienza è un evento interiore. Il solo evento autentico. È un’invenzione collocata nel passato che non si dichiara tale; è un progetto retrospettivo. Credo che le svolte decisive di una vita siano legate ad avvenimenti che non hanno avuto luogo, a rappresentazioni generate da un’esperienza, la quale preesiste alla storia che pretende esserne all’origine e che si limita ad esprimerla. Il famoso rimprovero che gli uomini non imparano niente dal loro passato (individuale e collettivo) è tanto assurdo quanto istruttivo. Non è imparare la storia che la cambierà. Soltanto l’esperienza cambia tutte le cose, poiché essa non è un evento della storia, ma un evento interiore che deve cambiare la storia per arrivare ad esprimersi.

L’esperienza è poeta. Se gli uomini vivono un’esperienza più ricca dei fatti che potrebbero falsamente spiegarla, non gli resta altro che essere onesti, in altre parole inventare di sana pianta. Dove troverebbero altrimenti l’origine della loro esperienza? Allora progettano, inventano ciò che la renderà decifrabile. L’esperienza non è una conclusione, è un inizio. Il suo regno è il futuro. O l’atemporale. Per questa ragione non può presentarsi sotto forma di racconto o di storia. Ma come fare diversamente?