MICHELA TURRA

SULLA PELLE

 

orni di malizia che mi avevano affascinato e disgustato di lei nell’infanzia.

Una donna: una ragazza per me, nella memoria. Anna spettinata e con il rimmel sugli occhi, lasciata sotto casa da un ragazzo ogni sera diverso. Anna urlava, nella sua voce roca, contro il padre e la madre.

Oggi serena: una donna felice, come poche semplice e compiuta nelle parole, concreta. Anna venuta in città dal paese, per lavorare come fa ogni tanto, in una grande casa del centro, quella dei miei parenti. Sopra una scala, a pulire vetri. Anna allegra. Riempie con il suo grosso corpo e la sua presenza festosa quelle stanze dai soffitti alti. La voce è esuberante, e lei parla francamente, lieta.

Anna, per me il simbolo del male, ha ora due figli (che ama). Lo si capisce dal modo in cui dice: "Teresa mi ha sempre aiutato, va a scuola a piedi tutte le mattine". Anna sposata. Che siede con noi a tavola e, racconta, e mangia con gusto. Adora la birra, dice.

Penso: "Mi ero fidanzata con tuo fratello. Io avevo otto anni e lui nove. Gli mancava qualche dente. Severino Vivarelli. Il mio primo amore". Guardo la mia virtuale cognata (che non sa).

Il fratello (mio) faceva da tramite. Seduti sui sassi davanti a casa giocavamo a confidargli un segreto: "Che cosa ti ha detto?" domandavo io. "E’ innamorato" riferiva Paolo.

"E lei, cosa ti ha detto?" chiedeva Severino. "E’ innamorata".

Severino arrossiva, e sussurrava qualcosa a Paolo nell’orecchio. Mio fratello era chiamato, stavolta, a un compito difficile; arduo trovare un tono solenne per i suoi cinque anni: "Allora, siete fidanzati". Impaurita, mi allontanavo: era il primo sintomo di una difficile vita amorosa. Ma nonostante le titubanze, che mi guastavano la possibilità di una gioia piena, ci guardavamo teneramente, ci prendevamo le mani, ed ERAVAMO fidanzati. Sapevamo di esserlo. Anna ascoltava intanto alla radio ‘I tuoi occhi verdi’.

Anche oggi una canzone in sottofondo, Anna ingrassata di venti chili, ma bella lo stesso. Sì, bella. La guardo e le parlo.

Allora no, mi intimoriva. Era mia cognata, chiacchierata. Non piaceva ai miei. Per queste ed altre ragioni, mi attraeva.

Anna litigiosa, forse anche oggi, ma, immagino, piena d’amore.

La casa è sempre lì sulla curva, la Fornace dietro. Ci saranno altri bambini.

"Severino?" domando.

"Oggi è casa, di solito no".

Che ricordo limpido ho di lui, lo rivedo correre in bicicletta, pieno di croste, o accudire ai conigli. ‘Perché lui è così sveglio e vivace?’ mi chiedevo. Così diverso da farmi innamorare. Era lui il mio vero amore bambino. Arrivò Mauro, cittadino svizzero in villeggiatura, con il quale imbastii qualche promessa e qualche scambio di bigliettini. Ci incontravamo nell’orto, ma con imbarazzo, perché avevamo cominciato un gioco forzato, che non ci piaceva.

A me piaceva Severino. Mi piaceva tanto che forse, se lo ritrovassi identico, lo sposerei oggi, per il gusto di tornare bambini, in montagna.

"I miei fratelli si sono sposati" dice Anna.

"Severino?" chiedo.

"Lui no". Questo mi basta. Mi piaceva perché nomade, vivace.

Allora c’è stato un seguito a quelle emozioni libere di due bambini.

Cerco notizie degli altri: "Tullio?" So che è morto, ma voglio ricordarlo. Era già vecchio, allora. Gentile, mi riceveva in casa: una stanza povera, da operaio, cui ogni tanto facevano visita i nipoti, Loretta e lo svizzero Mauro. Tullio, sessantenne con i capelli bianchi, partiva ogni mattina presto sulla sua motocicletta rossa per andare al lavoro e su quella, Anna mi informa, è morto. Era buono e solo, e gli volevo bene.

Un giorno, lui e Loretta mi mostrarono che la felicità è inaspettata e lievissima. Erano appena le dodici: Tullio era tornato per l’intervallo del pranzo che la nipote gli stava preparando. Io la osservavo: dolce, ordinata. Anche lei: così diversa da me. Le sedevo accanto mentre impastava polpette piccole come biglie. Una volta fritte, me le fece assaggiare: erano deliziose.

Entusiasta, volli stupire i miei con quel piatto. Ma mangiarlo insieme a loro, pur nella infantile e totale solarità di un giorno d’agosto, non era la stessa cosa. No, io avevo bisogno di quella cucina disadorna, della voce di Tullio e della grazia di Loretta, per essere felice. Avevo bisogno di Anna, che, ignara della mia infanzia, mi passava davanti compresa in un’intensa stagione di vita, come ora.

Anna mangia e ride: la attende il viaggio di ritorno verso gli affetti, verso quei pochi metri quadrati che le fanno da palcoscenico e che l’hanno resa così certamente se stessa. Ha ancora quel difetto di pronuncia, la esse sibilata che mi faceva sembrare insinuanti le sue parole e che oggi invece mi evoca scene di ordinaria quotidianità. Ha sempre il nero sugli occhi, mal dato come allora, e passando davanti allo specchio non resiste alla tentazione di lanciare uno sguardo alla propria immagine. Ha una comunicativa prorompente, Anna: forse per questo Ivana, la mia amica sarta fidanzata con il biondo Alfonso, non la sopportava. Anna ha un’identità, sulla quale non si interroga.

Io, invece, ho soltanto il sole di questo pomeriggio che mi concede un viaggio nel tempo e, attraverso il ricordo, mi regala qualche sensazione viva. Sulla pelle.