SILVIA ALBERTAZZI

IL COMPLEANNO DELL’ARCIERE

 

Solo all’Arciere poteva venire in mente di affittare una casa al mare per il mese di aprile. "Ci passerò i fine settimana", aveva detto. "Mi prendo le ferie tutti i venerdì e così me ne sto in spiaggia fino alla domenica sera." Poi, il primo giovedì del mese, uscendo dal lavoro aveva trovato una pioggerella antipatica; ma siccome la mattina aveva già messo in macchina una sacca con quattro calzini, due slip e le ciabatte di gomma, era partito lo stesso. A Forlì, aveva iniziato a piovere più forte. A Cesena diluviava. A Rimini veniva giù così fitta che gli riuscì difficile trovare la strada per Bellariva, dove faceva un freddo cane e, una volta arrivato, dovette bussare dal padrone di casa per chiedere che gli accendesse il riscaldamento. Mosso a compassione da quel villeggiante fuori stagione, il vecchio gli dette anche un paio di coperte pesanti per la notte e un palombo da lessare, per la cena. Alle nove, mentre stappava una bottiglia di bianco frizzante per annaffiare il suo pesciolino, si sentì talmente solo, nella cucina anonima, che prese il cellulare e compose il numero del Grande-Uno-Rosso.

"E allora, che ci fai al mare con questo tempo? Che dici? Ti sei fatto un palombino? Una palombella, vorrai dire, spero? Ma sì, dai, una palombella val bene il temporale …"

Il Grande-Uno ridacchiava, e continuava a prenderlo in giro. L’Arciere lo immaginava sogghignare sotto i suoi baffoni. E dietro sentiva le voci degli altri tre: il Socio, misurato e sornione; il Guru, come al solito un po’ assente, e poi Milady, in sotto tono. Li vide ridere alle sue spalle, ma non se ne offese; anzi, provò nostalgia. A quell’ora avrebbe potuto essere insieme a loro, e invece se ne stava lì tutto solo, sotto una lampada da quaranta candele, a diliscare un pesce lesso.

"Le previsioni non sono buone, caro il mio Arciere", stava dicendo Il Grande-Uno, "Per domani ancora pioggia. E sabato scende la bora dal Golfo di Trieste. Se sei fortunato, domenica una trombetta d’aria non te la toglie nessuno. Ma a te che ti frega", concluse poi, ridacchiando, "Tu hai la tua palombella, no? Diavolo d’un Arciere …"

E per una volta le previsioni ci avevano azzeccato. Era stato brutto il venerdì, pessimo il sabato, e la domenica l’Arciere era potuto rientrare solo a tarda sera, quando il vento si era finalmente calmato. Né le cose erano andate meglio il fine settimana successivo, o quello dopo. Passata la metà del mese, l’Arciere si era accorto che non solo non aveva ancora messo i piedi in acqua, ma non era neppure mai riuscito a scendere in spiaggia senza la giacca di lana. Rimanevano meno di quindici giorni al suo compleanno, il primo di maggio, giorno in cui sarebbe scaduto anche il suo contratto d’affitto. Ancora due settimane di mare e niente era successo: non che si aspettasse molto; però, neanche un raggio di sole, una persona nuova con cui scambiare due parole, una ragazza, magari. Niente. Neppure gli amici avevano avuto voglia di raggiungerlo, con quel gelo.

"Ma verreste se facessi una festa, insomma, se vi invitassi qui per il mio compleanno? Verreste anche se piove?", chiese al telefono al Grande-Uno-Rosso quel sabato sera, mentre, tanto per cambiare, una bufera infuriava sul mare.

E il Grande-Uno rispose che sì, che si poteva fare, che per una bella mangiata sarebbero arrivati tutti, a passare con lui l’ultima giornata al mare.

Così il primo di maggio, che caso strano era un giorno di sole, se li vide comparire tutt’e quattro, nella tarda mattinata, al bar del bagno Pino: davanti il Grande-Uno e il Socio, già pronti a sganasciarsi di fronte ai suoi bermuda fiorati e al cappellino da pescatore; dietro, il Guru, lo sguardo perso nel vuoto, e Milady, un po’ defilata. L’Arciere li guardò imboccare il vialetto verso lo stabilimento balneare, e mentre gli si faceva incontro non poté fare a meno di pensare che in altri tempi nessuno di loro avrebbe barattato la manifestazione in Piazza Maggiore per una frittura mista sulla spiaggia. Così gli apparvero come li aveva conosciuti quasi trent’anni prima: un robusto sindacalista dal portamento austero; un neo-funzionario di belle speranze; un ragazzino secco e allampanato sempre sull’orlo della rivoluzione e la sua timida, giovanissima, compagna. Rivide gli uomini barbuti e baffuti, che agitavano il pugno in capo a qualche corteo, e Milady con le chiome al vento, e gli zoccoli ai piedi, che s’aggirava nervosa per i cortili dell’università, in attesa di un esame. Barbe e baffi ora erano bianchi, come i pochi peli rimasti in testa. Anche i capelli di Milady, molto più corti di allora, adesso avevano un altro colore, certo per nascondere il grigio, e agli esami, adesso, era lei a fare le domande. Forse proprio lei era la più cambiata, si disse l’Arciere mentre, baciandola su tutt’e due le guance, si ritrovò ad altezza di sguardo un reticolato di impercettibili rughe sottili. Ma no, si corresse, lei è quella che invecchia meglio. Deve avere ancora la stessa taglia. La osservò mentre gli passava davanti, e camminava distratta verso la riva, alta e sottile nei suoi jeans da adolescente. "Si avvia a diventare una perfetta signora tipo ‘dietro-al-liceo-davanti-al-museo’", sorrise tra sé, contento di aver ricondotto a un livello più umano la vecchia amica.

Lungo il bagnasciuga, tra nonne cellulitiche che già denudavano le carni flaccide al primo raggio di sole e nipotini bizzosi, l’Arciere si era tolto i sandali, e procedeva spedito verso il molo, chiacchierando col Guru che, scalzo, reggeva nella sinistra le scarpe da ginnastica. Erano le solite sciocchezze di tanti anni prima, quel nonsense con cui amavano riempire i momenti di silenzio: che la gallina fosse un animale poco intelligente, da tre decenni loro continuavano a capirlo da "come guarda la gente". Ormai libero dalle ingessature cittadine, il Guru filosofeggiava nel suo modo contorto e un po’ folle; da dietro, non troppo discosto, il Grande-Uno gli faceva il verso, ironizzando sui suoi concetti fumosi. Il Socio, al solito, taceva, sorridendo ironico, mentre Milady, che non voleva bagnarsi i piedi e temeva che la sabbia le entrasse nelle scarpe, camminava sulle punte, tra spiaggia e risacca, in una sorta di goffo balletto. Il Grande-Uno indossava un cappellino da baseball e una specie di gilet da pescatore pieno di tasche; visto di profilo, era uguale all’Armando, nelle strisce di Altan. Accanto a lui l’Arciere, adesso a torso nudo, si sentiva proprio come la Pimpa, gracile e piccoletto.

A un bagno oltre il molo si fermarono per un aperitivo, seduti sulla veranda. L’aria era fresca, una brezza frizzante arrivava dal mare, ora più perlaceo che azzurro. Milady si infilò un golfino; il Socio chiuse i bottoni del suo parka. Dall’interno arrivavano le note di una canzone di Cohen. "Ci sta bene", pensò l’Arciere, "È perfetta. È quello che ascoltavamo allora." E nessuno si accorse che sotto gli occhiali da sole aveva chiuso le palpebre, e non era più con loro, con quelli di oggi, almeno, ma stava con quelli di trent’anni prima, quelli che ascoltavano "Suzanne" preparando la rivoluzione.

"Mezzogiorno e tre quarti, Arciere, non si mangia?", lo risvegliò il Grande-Uno.

Si spostarono verso i tavoli del ristorante, proprio di fronte al mare. C’era finalmente il sole, erano allegri, c’erano gli spaghetti allo scoglio e c’era il pesce, e il verdicchio e il traminer, e il Guru aveva portato lo champagne e Milady si era incaricata del regalo. Si accorsero solo alla fine del pranzo che nessuno aveva pensato alla torta, ma rimediarono con un gelato alla panna.

"È tutto perfetto", pensò l’Arciere, che aveva temuto di dover spegnere ormai troppe candeline.

Restarono a lungo, ancora, a chiacchierare, mentre il mare cominciava a incresparsi. Sulla spiaggia non c’era più quasi nessuno: le nonne avevano portato i bambini a casa, per il sonnellino del pomeriggio; solo pochi tedeschi in mutande prendevano il sole, incuranti del vento che sferzava le loro pance nude e raggrinzite. Per un momento, chissà quanto lungo, l’Arciere pensò che quella doveva essere la felicità. Un momento: poi lo riavvolse la tristezza di sempre, col ricordo del palombino mangiato da solo la prima sera e l’immagine, più recente, di una ragazza che gli aveva sorriso quella mattina, mentre arrancava sulla vecchia bicicletta del padrone di casa. Gli era sembrato un invito, qualcosa che non gli capitava ormai da anni, e aveva risposto anche lui con un sorriso, timido, però, perché da tempo aveva dimenticato come si abborda una sconosciuta. Ma si era subito reso conto che la biondina rideva di lui, un vecchio sudato su una bici arrugginita, che avrebbe potuto essere suo padre — ma no, era troppo scialbo, troppo grigio, troppo anonimo per essere suo padre.

"Signori, non vi ho ancora mostrato il regalo che mi sono fatto", disse, scuotendosi dalle sue malinconie. E, alzandosi da tavola, li condusse alla casetta che aveva preso in affitto, dove, nel cortile fatto a sassi, era parcheggiata una piccola spider argentata.

"Mezzo secolo di vita merita un premio, no?", fece poi, quasi a giustificarsi di quella spesa così lontana dal suo personaggio, un lusso di cui ancora si vergognava con se stesso.

"Qualcuno la vuole provare con me per rientrare stasera?" propose poi. "È una freccia. Anche se partiamo un po’ più tardi, poi sull’autostrada recuperiamo tutto." Ma il Grande-Uno obiettò che lui e il Socio erano attesi per cena e non potevano rischiare un ritardo, e per il Guru posporre il rientro significava rinunciare al cinema del sabato sera, un rito che celebrava ogni settimana fin dai tempi del loro primo incontro, e che prevedeva la presenza di Milady, seduta alla sua sinistra. Sarebbe stato impensabile — e infatti l’Arciere non si sognava neppure di pensarlo — che Milady abbandonasse il Guru di sabato sera per tornare a Bologna sulla sua spiderina fiammante.

Così li vide partire, tra baci e pacche sulle spalle, sulla familiare del Socio, e li seguì con lo sguardo fintanto che non riuscì più a distinguere, dal finestrino posteriore, la mano di Milady che si agitava.

Allora rientrò in casa, raccolse le poche cose che aveva portato con sé — qualche capo di abbigliamento, la radio, un libro — le buttò nel bagagliaio e poi si mise a riordinare, pulire, sistemare le stanze e il bagno. Non c’era molto da fare — era un uomo ordinato, quasi pignolo, l’Arciere - ma ci perse parecchio tempo, perché voleva che tutto fosse a posto, pronto per il prossimo affittuario, che magari sarebbe arrivato solo in giugno. Quando fu soddisfatto del suo lavoro, chiuse la porta, riconsegnò le chiavi al padrone, e partì.

Ma in prossimità dell’autostrada, quando avrebbe potuto, finalmente, mettere alla prova il suo nuovo bolide, girò verso la campagna, imboccando i tortuosi stradelli guelfi. Che senso aveva arrivare a casa troppo presto? Nessuno lo aspettava. A passo di crociera, attento a rispettare tutti i limiti di velocità, si godette il crepuscolo che avanzava. Anche la sera scendeva senza fretta. Aprì il finestrino e aspirò il profumo della campagna; poi furono, in lontananza, le colline. E all’improvviso, nel buio, apparve una luna enorme, un pallone da spiaggia di platino in un cielo blu purissimo.

"The Moon on the Hill", pensò l’Arciere, e una poesia si compose, da sola, nella sua testa.

Nello stesso momento, a Bologna, già rientrata dal cinema, Milady sedeva al computer e trascriveva parole non sue, che non capiva da dove venissero, ma a cui, a ricordo della giornata appena trascorsa, dette il titolo di "poesia dell’Arciere":

La luna sulle colline

specchiata sulla mia nuova

freccia d'argento.

Quante volte in passato

proprio da quelle parti

mi sono sentito come

il matto sulle colline.

E la luna era sempre quella.