MATTEO BORTOLOTTI

LA SINDROME DELLA FORMICA

 

Ero in servizio all’USL, ti ricordi che andavo a Ozzano?

Non ho mica mai capito come facesse, questo qua.

Aveva una malattia tutta particolare, tutta sua.

Quando aveva davanti qualcuno, lui lo seguiva. Gli stava proprio dietro al sedere. Passo passo.

Ma mica lo pedinava, sai Giorgio? Lo seguiva proprio. Come se stesse facendo la fila indiana alla posta o per il ticket. Ché allora c’era ancora il ticket, e si chiamava ancora USL.

Era magrolino, uno tutto striminzito, con la faccia allungata che gli colava sul petto. Era estate e andava in giro con la camicia sbottonata fino all’ombelico. Ma perché aveva caldo, sai Giorgio, mica perché aveva un bel fisico. Quel petto me lo ricordo bene, che era liscio da far senso, aveva in tutto due o tre peli che gli uscivano dallo sterno. Quattro al massimo. Grossi e bianchi.

C’era il Trema che quando lo vedeva arrivare, prima della seduta, rideva e si chiedeva come faceva a camminare se non aveva qualcuno davanti.

Arturo si chiamava, con quella sua camminata a piccoli passi. Sembrava che inciampasse di continuo, ma subito riprendesse l’equilibrio.

No, Attilio, macché Arturo. Attilio si chiamava.

Ma tutti lo chiamavano la Formica. Perché ci assomigliava, con quella faccia tutta sciolta, spenta, e gli occhiali a goccia. La Formica, anche perché era così che chiamavamo la sua malattia. La sindrome della formica.

Un giorno, io ero andata in bagno a sistemare la carta, perché in quel bagno te l’ho detto che non mettevano mai abbastanza carta, e l’ho incontrato che seguiva uno nuovo. Era un ragazzone larghissimo, con le gote gonfie e gli occhi piccoli. Si sforzava di portare tre quattro scatole di medicinali una sopra l’altra. La Formica lo seguiva, appunto, e portava tre quattro scatole anche lui. A differenza del ragazzone, però, sembrava non fare fatica, lui. Lo seguiva freddo, passo passo. Lo sguardo, se ce l’aveva, era immobile dietro alle lenti larghe. Quei suoi occhiali mi facevano paura.

Sai Giorgio, quel colore tipo il grano. Quel giallo strano.

Proprio un giallo strano, sembra questa storia qui. Un "triller" di quelli che danno al sabato su raidue, ché non me ne perdo uno, di "triller".

Quel giorno il Trema aveva avuto una crisi e allora stavamo parlandone tutti insieme.

Non resisto più con ‘ste mani, diceva.

Fausto, si tranquillizzi, diceva il Dottore.

Non resisto più, solo, così ridotto, diceva lui.

Su Fausto, di nuovo il Dottore, vedrà che le cure l’aiutano.

Dai Trema, dicevo io. E poi lo abbracciavo per consolarlo un po’.

Lui ne approfittava per toccarmi, ma io non mi sono mica mai spaventata. Era il Trema, non era Bagutti, sai Giorgio che il Bagutti.... Poi un po’ mi piace quando mi toccano così. Lo fanno a volte sull’autobus quando è fitto fitto. Per me va bene. Ho letto su una rivista che è normale.

Eravamo seduti tutti in circolo, Dottori, Assistenti e pazienti. Si facevano così le sedute.

Trema parlava del morbo e noi lo ascoltavamo a bocca aperta. Io pensavo che facevo bene a farmi toccare, poverino. Aveva mani grandi, ma delicate. Le dita erano dritte dritte, come dei bastoni. Non si vedevano le pieghe sulle falangi, sembravano delle salsicce arrotolate, mentre raccontava delle crisi. Salsicce che friggono e non stanno ferme. Ma erano delicate, quando mi toccavano, morbide che mi piaceva.

Insomma stava piangendo, e il Dottore prendeva appunti, questo mi ha sempre dato fastidio; lui scriveva sempre sul quel libricino, pure quando parlavo io.

Io stavo lì vicino e guardavo contro luce, me lo ricordo bene, non mi ricordo cosa, ma guardavo controluce. Può essere la sagoma di qualcuno, il cielo era azzurro come nei cartelloni. Proprio con le stesse nuvolette bianche. Ero un po’ assonnata, tutta quella luce sugli occhi, e le ombre in mezzo, fra me e quell’azzurro lì.

Il Dottore chiede al Trema se sta meglio, ma lo chiama Fausto, come sempre.

Si, dice lui scuotendo la testa. Poi tira su la candela col naso, e si guarda la mano agitata.

Entra una a quel punto. Dice al Dottore qualcosa all’orecchio. Era estate, e non c’era molto personale.

Allora si alzano tutti in piedi, ci alziamo anche noi e corriamo lungo il corridoio. Mi ricordo il riflesso sul pavimento lucido, le stesse nuvolette di prima dietro i finestroni dell’atrio. Mi ricordo i dettagli, non tutto. Soprattutto i dettagli, sai Giorgio.

C’era la Formica a zampe all’aria. Era là che zampettava e la bava gli gocciolava giù per la pelle ruvida fino a raccogliersi vicino all’orecchio. Sparse in qua e in là c’erano delle siringhe, gli scatoloni aperti, poi c’era il ragazzone larghissimo con le gote che adesso erano blu, la bocca sembrava uno scatolone aperto anche quella. Intanto la Formica zampettava ancora, e io mi sono avvicinata per chiedere se c’era bisogno, ma mi hanno allontanata subito.

Il Dottore gli ha fatto un’iniezione mentre qualcun altro lo teneva per le gambe. Il ragazzone stava fermo e il movimento attorno a lui gli scuoteva i capelli leggerissimi. Erano castani come i miei.

Quello per terra calciava forte, e dietro gli occhiali a goccia finalmente vedevo qualcosa. Lacrimava grosse lacrime, si lamentava piano piano, sembrava che facesse dei gargarismi prima d’andare a letto, ma senza voler svegliare nessuno.

Sulle prime credevo che l’avevano avvelenato, poi il Dottore m’ha detto che era epilettico.

Al corso ci hanno fatto vedere anche un filmato, ma non mi ricordavo, ero distratta, c’era una luce che mi stordiva. Il Trema poi se ne era approfittato perché eravamo tutti ammucchiati, e mi stava dietro con quelle mani enormi.

Quel giorno non è mica morta, la Formica. Dopo dieci minuti stava già in piedi e aveva ripreso a seguire la gente. Senza pacchi in mano, però. Le braccia, che non me n’ero mai accorta, erano lunghissime, e ciondolavano a turno. U’ — nò, dù — è. Sembravano quelle dei militari.

Aveva un’aria triste, la bocca ancora più curva.

Attilio, vai a casa e fatti seguire, aveva detto il Dottore. Spiritoso il Dottore. Fatti seguire.

Lui aveva fatto un cenno con la testa, per terra c’era ancora la pozza di bava che aveva bagnato i sacchetti delle siringhe.

 

- E poi, dopo?

- Niente. Dopo ha continuato a seguire la gente, ma era diverso da prima.

- Perché, signora Tedeschi?

- Sai Giorgio, non portava più gli occhiali a goccia, diceva che si sentiva soffocare. E aveva smesso di caricarsi tutti quei pesi. Veniva solo per farsi visitare.

- Sì, è vero. Attilio ha avuto l’attacco l’ultimo giorno, dopo è andato in pensione. L’ho conosciuto, sa, era tuttofare da trent’anni.

- Tuttofare?

- Sì, portava pacchi, seguiva gli infermieri, cose del genere.... Tuttofare.

- E la sindrome della formica?

- Lo diceva il Dottor Gualdi, per scherzare. Luigi ne ha sempre una per tutti.

- Capisco. Sono un po’ stanca. Forse è questa luce.

- Ci vediamo venerdì, allora. Continui con le pillole ultime e mi saluti Fausto.

- Va bene Giorgio. Sai che gli faccio da infermiera?

- Lo so, è una brava infermiera.

- C’era gente che non ci credeva, diceva che me l’ero inventata.

- No, lei ha solo molta fantasia. — Signorina, mi chiami la figlia della signora Tedeschi. - Le pillole ultime, Guglielmina mi raccomando....

- Lo so, lo so, sono una brava infermiera.