BARBARA GARLASCHELLI

S’ILLUMINA L’IMMENSO

Erano le quattro del pomeriggio e regnava un silenzio di tomba. Anzi, di necropoli, data la vastità di Villa Dondoni.

Erano le quattro e nemmeno le foglie delle piante nel parco osavano fremere. Né gli uccelli cantare (nemmeno volare, se per questo, dato che il loro sbatter d’ali avrebbe potuto infrangere l’aria e provocare un lieve stormir di fronde), né i cani abbaiare, né le api ronzare, né i gatti miagolare eccetera.

All’interno della villa, governante, cuochi, camerieri, guardarobieri, autisti e personale vario erano sprofondati in una staticità plastica. Respiravano lievi e silenziosi, chiusi in quella che l’ingegner Dondoni detto l’Immenso aveva magnanimamente battezzato "Sala ricreazione": una stanza quattro per quattro in cui tutto il personale — venti persone — veniva rinchiuso dalle quindici alle sedici, l’ora del sonnellino dell’ingegnere.

Quando a uno dei cuochi cominciò a prudere il naso, il suo volto si accese immediatamente di un allarmato color porpora. Si guatò attorno con espressione terrorizzata e individuato un pertugio accanto a una delle porte-finestre, vi si tuffò a capofitto, stringendosi la punta del naso tra le dita, serrate come tenaglie. Il pover’uomo sentì lo starnuto gonfiarsi in un’onda che dalla trachea, non trovando lo sbocco naturale attraverso le narici, s’incuneò dritto nel cervello con la potenza di un’atomica fatta esplodere in un bunker.

Di fronte agli occhi atterriti degli altri domestici, il cuoco iniziò a barcollare come un birillo. L’aiuto cuoco balzò dalla sedia e lo placcò, impedendogli di franare a terra.

L’intera scena si svolse in un silenzio irreale, da film muto.

Alle quattro e un minuto, i domestici sentirono la chiave girare nella toppa. La porta della "Sala ricreazione" venne aperta e sulla soglia comparve l’enorme figura di una delle guardie del corpo dell’ingegner Dondoni.

- Potete uscire. - I domestici sgusciarono fuori dalla stanza per andare a dedicarsi ai propri compiti.

Tutti tranne il cuoco, a cui lo starnuto trattenuto aveva fatto partire un embolo. Nessuno se ne accorse sino all’ora di cena.

Le guardie del corpo dell’Immenso erano tre gemelli: Nathan, Lothar e Peppino.

Nathan e Lothar si assomigliavano come due proiettili e avevano la stessa, metallica intelligenza. Si muovevano in sincrono e parlavano a intermittenza, l’uno terminando le frasi dell’altro. Peppino sembrava essere uscito non solo da un ovulo diverso, ma da un sistema solare diverso. Mentre Nathan e Lothar erano alti e massicci, con enormi chiome biondo ricciolute e occhi azzurro cielo, Peppino era basso, cicciottello, pelato, con gli occhi cacchetta di gallina e miope come una talpa. Svettavano inoltre, ai lati del suo viso rubicondo, due curiose palette larghe e grasse che solo a un attento esame potevano essere definite orecchie.

Peppino non soffriva affatto di invidia nei confronti dei due bronzi di Riace che inspiegabilmente aveva come fratelli, anche perché lui possedeva una cosa che gli altri due nemmeno in cento anni. D’accordo, Nathan e Lothar erano belli e aitanti e, diciamolo pure, anche sessualmente meglio equipaggiati di Peppino — detto, nemmeno tanto originalmente, Peppino il Breve — ma.

Appunto, ma.

Ma la somma del quoziente d’intelligenza dei due fisicacci superava di poco quello di una gallina e, come amava ripetere Peppino, erano più ignoranti di una capra. Ignorante.

Peppino, come ovvio, era il capo e comandava sui due gemelli con la stessa inflessibile magnanimità di un padre che ha a che fare con due figli volenterosi ma ritardati.

I compiti dei tre non si limitavano solo alla cura dell’incolumità fisica dell’Immenso, ma variavano a seconda delle esigenze: buttafuori (se si trattava di allontanare giornalisti, parenti e questuanti vari), buttadentro (se si trattava di spogliarelliste, squillo, attrici porno, ecc.). Peppino, inoltre, si trasformava di volta in volta in: segretario personale, assistente informatico, intercettatore di spie, segugio.

Da qualche settimana a questa parte, però, i compiti dei tre si erano ridotti a uno solo: quello di infermieri (nel caso di Peppino, infermiere specializzato).

L’ingegnere aveva avuto un ictus tre settimane prima mentre si faceva scalare da una diciottenne svedese di un metro e ottanta. Le labbra a ventosa della nordica avevano indugiato per alcuni minuti su quello che l’Immenso amava chiamare il "Monte Rosa" e quando, con un sonoro ploc se n’era staccata, l’ingegnere aveva potuto percepire distintamente l’eco di quel ploc rimbombargli nel cervello, come in un segreto e perverso gioco di rimandi. Quindi era rimasto immobile, con un sorriso beota sulle labbra e un sottile rivolo di bava che gli colava da un angolo della bocca.

La svedese lo aveva osservato per alcuni secondi, poi non notando alcuna significativa differenza rispetto al pre-ictus, aveva continuato indisturbata la scalata.

Solo verso le ventitré, quattro ore dopo che la ragazza se n’era andata, la cameriera personale dell’Immenso aveva osato entrare nella camera da letto dell’ingegnere. Guardato il corpo immobile sul letto aveva cacciato un urlo. Tre secondi dopo si era ritrovata spalmata sul parquet, calpestata da Nathan, Lothar e Peppino armati sino ai denti (finti, nel caso di Peppino).

L’Immenso aveva ripreso l’uso della parola dopo un paio di giorni e aveva preteso di essere riportato a casa. Non gli importava di essere stato ricoverato nella miglior clinica della regione.

- Ma è la sua - aveva obiettato Peppino.

- Appunto - aveva replicato secco l’Immenso, chiudendo così una volta per sempre l’argomento. Lì non ci avrebbe fatto ricoverare nemmeno il suo cane, figuriamoci.

Così era tornato a Villa Dondoni.

La sua stanza era stata allestita a mo’ di stanza d’ospedale e non mancava nulla: dal letto ad acqua iper elettronico, ai macchinari per la respirazione artificiale, alle padelle di platino e ai pappagalli tempestati di diamanti.

Nathan, Lothar e Peppino si alternavano al capezzale del malato che, nonostante le visite e le cure dei migliori specialisti del mondo, continuava a peggiorare.

Il suo corpo basso e tozzo stava diventando esile come quello di un bambino. Il sorriso a trentadue denti che da sempre lo accompagnava, era scomparso. Tubicini e cannette entravano e uscivano da tutti gli orifizi possibili e impossibili. Una bombola d’ossigeno era sistemata di fianco al letto. Per delicatezza, un enorme telo bianco era stato fatto appendere da Peppino sullo specchio che ricopriva il soffitto della stanza in modo che il poveretto non potesse vedere il risultato dell’accanimento della malattia sul proprio corpo.

Nonostante la debolezza, però, l’Immenso continuava a dettare ordini da quel letto d’agonia con lo stesso cipiglio di sempre. Solo che gli ordini, ora, non riguardavano più gli andamenti della Borsa, ma dei suoi intestini.

Era tutto un risuonar di: - Peppino, padella!

- Nathan, pappagallo!

- Lothar, pipì!

- Peppino, clistere!

Dopo quattro settimane di quella solfa, Peppino meditava di suicidare l’Immenso. Per non farlo soffrire, diceva ai due gemelli forzuti.

- C’è solo una strada che potremmo provare - stava dicendo l’ultimo dei luminari convocati dall’ingegnere. — La risata.

L’Immenso scoccò una gelida occhiata al professore.

- In che senso? - gelido anche nella voce.

- La risata è terapeutica. Lo sanno tutti. Allarga i polmoni, mette in funzione svariati e sconosciuti e di solito inattivi muscoli ma, soprattutto, agisce in modo potente sulla psiche. Ormai, ingegnere, lei ha provato di tutto, ma i risultati continuano a essere scarsi. E sa perché?

- Perché? - domandò l’Immenso squadrando il luminare come fosse una cacca secca.

- Perché lei è depresso e la depressione svuota di efficacia qualunque terapia. Noi dobbiamo sconfiggere la depressione. Noi dobbiamo riportare il sorriso sulle nostre labbra. Noi dobbiamo ridere. - La voce del luminare era salita di svariati toni. Accompagnava le parole con un movimento rotatorio delle braccia.

Peppino, in piedi a pochi metri da lui, temette che nell’euforia un braccio del luminare si agganciasse a una flebo, staccandola. Estrasse la pistola e senza farsi notare dall’Immenso, la appoggiò al fianco del professore il quale abbassò gli occhi e si zittì di colpo.

All’ingegnere quella storia del "noi" non andava a genio. Non era mai stato per la condivisione. Il suo motto recitava: "Ciò che è mio è mio e ciò che è tuo pure". Però, quell’idiota aveva ragione: sino a quel momento non si erano verificati significativi miglioramenti nel suo stato di salute.

- E come si fa? — chiese.

- A fare che? — sussurrò il luminare. Peppino ripose la pistola nella fondina sotto l’ascella.

- A ridere, no?

- Be’, potrebbe assumere dei comici…

- Comici?

- Sì, è gente che se lei paga la fanno ridere - rispose il luminare, ora visibilmente sollevato.

- Be’ avanti, mi faccia ridere allora - disse l’Immenso.

Il luminare sbatté le palpebre, guardando fisso l’ingegnere senza capire.

- Scusi?

- Lei la pago no? E profumatamente. Perciò mi faccia ridere. Su, si muova.

Sul volto del professore passò una svariata gamma di colori: dal verde rabbia, al bianco paura (quando Peppino posò di nuovo la pistola sul suo fianco).

- Ma non è il mio mestiere quello di far ridere - balbettò indignato.

- Ah no? Mi era parso… - disse l’ingegnere lanciando un’occhiata complice a Peppino.

— Va bene, allora può andarsene. Non mi serve più.

Il luminare abbandonò la stanza e la proprietà Dondoni intera alla velocità della luce.

- Ridere… è una parola - disse fra sé l’Immenso.

Come fare? A chi rivolgersi?

Ridere.

L’ultima volta che aveva riso aveva sei anni ed era stato quando suo fratello era caduto nella vasca del concime organico della fattoria dei nonni. Lo avevano ripescato due giorni dopo. Vivo, anche se avrebbe preferito non esserlo. Il tanfo del letame lo aveva preceduto per un anno intero. E lui lo aveva soprannominato "Leti".

Ridere.

Come fare?

Un leggero colpo di tosse lo distrasse dai suoi pensieri. L’Immenso girò gli occhi su Peppino, colui che aveva tossito.

- Che c’è?

- Ehm, ingegnere… avrei avuto un’idea…

- Sentiamo.

- So dove trovarli.

- Chi?

- I comici.

- Dove?

- Nell’unico posto possibile: in televisione. Sono tutti lì. E in parlamento, ma quelli non fanno più tanto ridere. Fanno solo un po’ pena.

- Vai - ordinò l’Immenso (proprietario, tra le altre cose, di svariate emittenti televisive).

E Peppino andò.

Niente.

Erano al centoduesimo comico ma sul viso dell’Immenso non era comparso neppure il refolo di un sorriso.

Gli erano sfilati davanti comici specializzati in politica, comici specializzati in sesso, comici che raccontavano solo barzellette sui canguri, comici di sinistra, di destra, di centro, comici donne e comici uomini, comici che si travestivano e comici che si spogliavano, comici che ridevano mentre raccontavano e comici che restavano serissimi.

Ma niente.

L’Immenso era rimasto sempre serio come la mummia di Tutankhamen. Anzi, di più.

Uno dei comici l’aveva presa così male che si era suicidato il giorno dopo. La cosa aveva fatto sbellicare Nathan e Lothar, ma non l’Immenso.

Quel pomeriggio si stava esibendo un tipo piccoletto, con l’aria di uno che non si lavava da un mese, e la parlata larga. Tra tutti, pensò Peppino, questo era il migliore. Sbirciò la faccia dell’ingegnere, più bianca del bianco cuscino su cui era posata. Niente. Non si muoveva un muscolo.

D’improvviso, un colpo di vento spalancò la finestra socchiusa. Sollevò alcuni fogli posati sulla grande scrivania in rovere, fece tintinnare la flebo appesa al letto dell’Immenso e staccò una parte del lenzuolo che ricopriva lo specchio sul soffitto.

Peppino non se ne accorse subito, preso com’era a correre a chiudere la finestra e a raccogliere i fogli sparsi per la stanza. La sentì solo dopo qualche secondo.

La risata.

Dapprima lieve come il frusciare delle foglie, poi sempre più forte, come il raspare di un cane alla porta.

Anche il comico la sentì e un enorme sorriso apparve sul suo viso di bambino precocemente invecchiato.

Peppino guardò prima lui, poi il letto.

Il corpo esile dell’Immenso sussultava e la sua bocca, impossibile sbagliarsi, era tirata in un sorriso.

Nathan e Lothar, fuori dalla stanza sentirono quello strano suono e si scambiarono un’occhiata perplessa.

- Mi pare…- disse Nathan.

-… che qualcuno… - disse Lothar.

-… stia ridendo - concluse Nathan.

Un piccolo pensiero si formò nel loro cervello, per scomparire nel nulla da dove era venuto.

Nel frattempo, dentro la stanza, l’Immenso rideva.

Peppino gli si avvicinò con cautela.

La risata stava squassando il corpo dell’ingegnere che sussultava come fosse percorso da corrente ad alta tensione. Lacrime gli scendevano copiose lungo le guance scavate.

Era uno spettacolo spaventoso.

Peppino si avvicinò all’Immenso e seguì la linea del suo sguardo.

Non era il comico che l’Immenso stava guardando.

L’Immenso guardava in su.

In su.

Nello specchio.

Peppino alzò gli occhi e si vide. E lo vide.

Uno spettro pieno di cannette al cui fianco stava un botolo con due orecchie da marziano.

E poi udì le parole tra le risa.

Solo due.

Chiarissime.

Le ultime.

- Che pirla…

Il comico non capì mai a chi si era riferito l’ingegnere.

Peppino sì.